di Yuleisy Cruz Lezcano
Ieri era 75ª Giornata Nazionale per le Vittime degli Incidenti sul Lavoro. Il silenzio pesa più del rumore. È il silenzio che rimane dopo le sirene, dopo l’urlo soffocato di una madre, dopo la voce interrotta di un collega che non ha fatto in tempo a dire “attento”. Non è retorica, è una sequenza continua di nomi, di età, di mestieri interrotti.
Matteo Forner, 44 anni, è solo l’ultimo. È morto schiacciato da una pressa per l’uva nella sua azienda di famiglia a Castelcucco, in provincia di Treviso. Un blackout, poi il ritorno della corrente, e la macchina ha ripreso a funzionare senza preavviso, con lui ancora lì. Il padre ha assistito alla scena, impotente. Matteo era un consigliere comunale, un padre, un uomo che credeva nel lavoro, come tanti. È morto come si muore spesso in agricoltura: all’improvviso, per un errore umano o per una macchina non messa in sicurezza, per una distrazione che diventa sentenza. Purtroppo però, non è un caso isolato ma un copione scritto e riscritto con lo stesso inchiostro: il ribaltamento di un trattore, la caduta da un ponteggio, la pressa che parte, il cantiere non vigilato. È sempre un ingranaggio che si inceppa, ma mai abbastanza da fermare un sistema che continua a divorare vite. Solo nel 2025, fino a oggi, sono già 874 i morti sul lavoro. Una media di oltre tre persone al giorno. Ogni giorno. Una strage a bassa intensità, che non fa notizia come dovrebbe, che scompare nei trafiletti dei quotidiani, nelle promesse vaghe delle istituzioni, nelle sentenze lievi della giustizia.
I dati dell’ANMIL sono impietosi, ma ciò che manca ancora più dei numeri è la consapevolezza collettiva. La morte sul lavoro non è mai un destino, è sempre una responsabilità e troppo spesso, chi dovrebbe vigilare, prevenire, garantire sicurezza, non lo fa. Per negligenza, per risparmio, per cultura del profitto che mette il valore economico sopra a quello umano. Le pene, quando arrivano, sono simboliche. Per la morte di Anila Grishaj, 26 anni, stritolata da un’imballatrice, le condanne sono state tutte sospese. Per Daniele Peroncelli, elettricista morto a 32 anni, appena due anni ai responsabili, pena sospesa. Per Giovanni Spagnoli, morto asfissiato a Cesano Maderno, la Corte d’Appello ha assolto tutti. In molti casi si parla di "tragico incidente", ma la tragedia diventa sistemica quando la prevenzione è ignorata, quando le norme esistono solo sulla carta, quando la formazione è considerata un costo e non un diritto.
Ogni storia ha una famiglia che resta, un figlio che aspetta il ritorno del padre, una moglie che riceve una telefonata invece di un abbraccio. Il dolore non si prescrive. Eppure, la giustizia spesso sì. Le archiviazioni si moltiplicano, le provvisionali sono un contentino, e chi ha perso una persona cara resta con un vuoto e un senso d’impunità difficile da spiegare. Questa giornata, allora, non può essere solo un atto di memoria, deve essere un grido che non può più essere ignorato, perché la morte sul lavoro non è solo questione di numeri, ma di civiltà. La vera modernità non si misura con la produttività o il PIL, ma con la capacità di garantire che chi lavora lo faccia in sicurezza. Se oggi, nel 2025, morire lavorando è ancora una possibilità concreta, allora qualcosa è andato profondamente storto nel nostro sistema. È ora che il reato di omicidio sul lavoro entri nel codice penale, che le responsabilità non si sciolgano nei meandri delle prescrizioni, ma portino a condanne vere, che le imprese smettano di considerare la sicurezza una formalità burocratica, che la politica, il sindacato, l’impresa ritrovino il coraggio di guardare in faccia la realtà. Ogni nome, oggi, merita silenzio e rispetto, ma da domani, quei nomi devono smettere di aumentare, altrimenti la barbarie avrà già vinto. In questo 12 ottobre, l’Italia si fermi davvero (e non simbolicamente). Così quando ripartirà, lo faccia ricordando che nessun lavoro vale una vita.
Oggi si ricorda ma domani tutto ricomincerà, come sempre. I cantieri si riempiranno, le serre torneranno a brulicare di corpi chini, le fabbriche risuoneranno di metallo e ordini, ma il meccanismo che continua a macinare carne viva non si è mai davvero fermato, e il punto è proprio questo: la morte sul lavoro in Italia non è una sventura, è un dispositivo strutturale, vive dentro le pieghe della nostra economia, dentro la mentalità con cui si continua a leggere la produttività, dentro le scelte o le non-scelte della politica, della giustizia, della cultura d’impresa.
Chi muore sul lavoro spesso è già parte di una categoria marginale, invisibile. Sono i braccianti, i subappaltati, i precari dell’edilizia, i lavoratori stagionali, gli apprendisti in alternanza scuola-lavoro. Sono corpi intercambiabili, che si muovono in spazi dove la sicurezza è vista come un ostacolo alla velocità e al guadagno. Lo si capisce dai processi, che raramente portano a condanne significative, e che ancora più raramente segnano un punto di svolta. Le pene sono leggere, quasi simboliche, i patteggiamenti abbondano, le prescrizioni cancellano le responsabilità. La giustizia per chi muore lavorando arriva, se arriva, a distanza di anni, quando l’urgenza mediatica è già evaporata e non è un caso, è l’effetto di una cultura giuridica che fatica a riconoscere il nesso tra omicidio e lavoro, che tratta ogni morte come colpa singola o errore tecnico, invece che come esito sistemico. In Italia manca un reato specifico: l’omicidio sul lavoro. Oggi si parla di “omicidio colposo aggravato”, ma nei fatti si continua a considerare queste morti come “incidenti” e non come frutto di precise omissioni, di mancati controlli, di catene di subappalto costruite per disperdere responsabilità, e si sa, se l’errore è di tutti, alla fine non è di nessuno. Il contesto normativo non basta, perché anche laddove le leggi ci sono, troppo spesso restano lettera morta. La 81/2008 — il Testo Unico sulla sicurezza — è chiara, ma chi la applica? Con quali mezzi? Gli ispettori del lavoro sono troppo pochi, mal distribuiti, sotto organico e senza strumenti adeguati. I controlli sono insufficienti, e spesso arrivano troppo tardi. Secondo i dati Inail e Ispettorato Nazionale del Lavoro, oltre l’80% delle aziende controllate presenta irregolarità in materia di sicurezza, un numero che dovrebbe fare tremare i polsi.
Poi c’è il ruolo delle scuole, spesso marginalizzate o deresponsabilizzate quando si tratta di alternanza scuola-lavoro. Giuliano De Seta aveva 18 anni, era al suo primo giorno di stage ed è morto schiacciato da una putrella d’acciaio. L’azienda ha patteggiato, la scuola è uscita dal procedimento per archiviazione. Eppure, c’è una domanda che non si può ignorare: cosa ci faceva un ragazzo di 18 anni, senza alcuna formazione specifica, dentro un capannone metalmeccanico, vicino a macchinari industriali?
Ma il problema non si ferma lì, è anche economico. Negli ultimi vent’anni la deregolamentazione del lavoro ha moltiplicato le condizioni di fragilità. Le modalità attuali sono lavoro a tempo, lavoro intermittente, lavoro autonomo di facciata: sempre più italiani lavorano in condizioni che rendono impossibile opporsi a una richiesta pericolosa, denunciare un rischio, rifiutare un turno senza dispositivi di protezione. In questo contesto, la precarietà diventa vulnerabilità. E la vulnerabilità uccide. E ancora, ci sono i subappalti, una piaga che scompone le responsabilità in mille rivoli. Una grande impresa appalta a una media, che subappalta a una piccola, che affida i lavori a una cooperativa, che impiega un lavoratore in nero o semi-regolare. Quando succede l’incidente, ricostruire la filiera è un labirinto, e se la colpa si perde, la morte resta. Per non parlare dei ritardi nella digitalizzazione e nella raccolta dati.
Ancora oggi, molte morti non entrano nemmeno nelle statistiche ufficiali. Perché? Perché il lavoratore non era registrato, o perché la dinamica viene classificata come “in itinere” e quindi spostata in altra categoria, o perché era un migrante senza documenti, invisibile anche nella morte. L’ANMIL denuncia da anni che i numeri reali sono ben più alti di quelli resi pubblici. Il cambiamento, se mai ci sarà, non potrà arrivare da una sola direzione. Servono leggi nuove, ma anche il coraggio di farle rispettare. Serve un’inversione culturale: dal profitto a ogni costo al valore umano al centro. Servono più ispettori, più formazione, più attenzione da parte della stampa, dei sindacati, della politica. Ma soprattutto serve smettere di considerare il lavoro come un terreno di sacrificio accettabile. Perché in Italia il lavoro, ancora oggi, sa di sangue.