17 Dicembre 2025

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Claudio Cencetti: da una poesia sul presepe alle profondità del Natale

Claudio Cencetti: da una poesia sul presepe alle profondità del Natale

di Claudio Cencetti

 

Da un punto preciso dell’albero si fa via via più insistente un ricordo: è quello del presepe d’infanzia e della sua fine in età adolescenziale. La poesia accoglie e salva nella letizia il passato che ritorna.  

L’autore Claudio Cencetti riflette sul senso laico e antropologico della ritualità muovendo dai versi di una sua poesia. 

 

 

 

Natale: esodi

 

 

Pulsano col tic-tac di un firmamento 

meraviglie di vetro esili brame

di luce antichi soffi

entro un folto di fili d’argento,

e un pulsar, proprio un pulsar

sotto la stella cimale,

che risale anni luce dal cielo d’infanzia …

 

È la storia di un popolo di gesso

sepolto nel cartone.

Quando il cielo di carta fu strappato

fu la fine del mondo perfettissimo,

non fu più gloria a Dio, né al suo creato,

anzi l’Eccelso, anch’esso, fu riposto

e poi dimenticato

con la colla e lo strazio del pastore

acefalo (così all’ira di Giosafat?),

coi tuguri di sughero, insieme

al fuoco della lampadina fioco,

insieme al tuffo delle cinque lire

breve nel carillon ...

Per il popolo eletto

è l’attesa dei giusti, che è infinita,

Egitto, Babilonia …

ma ora, ora sorgete pastori,

ed esultate alla terra promessa

e venite, venite,

per voi è edificata questa casa,

traete i greggi dai duri involti,

spargete ancora le nevi di un tempo

sopra i muschi puerili,

issate stella e cartigli sul buio

e poi venite, venite,

per voi è edificata questa casa …



Così, al ticchettio del nume elettrico,

dolce ironia dei miei visi camusi,

lontane ricolme ritornano autostrade.

 

(Da: Valdelsane e altre poesie, Betti editrice, 2023)



 Ogni anno a Natale il mio albero replica se stesso,     riappare in edizione ne varietur, perché non oso smontarlo   e rimontarlo: è troppa la paura che qualche vetro,   infrangendosi, si polverizzi.      

 Tempo fa mi accorsi che un punto dell’albero – quello in     cui  anno dopo anno brillava una vecchia palla concava e   fiammante – più di altri mi fermava lo sguardo: da lì, ogni   volta, presentivo tracce di lontani ricordi. 

 Bucando con insistenza quel vetro, compresi che chi vi   risaliva con leggerezza era il mio presepe d’infanzia   (quando si diceva presepio); del resto, presepe e albero   erano per me coetanei, nati insieme quand’ero bambino.   Trovato il bandolo, non restava che sfilare l’intera     matassa.  Ecco allora – rimontanti dai miei primordi – volti,   pose, forme e colori di quel popolino di gesso; e poi, con   un senso di debole lacerazione, anche la sua fine, appena   divenni ragazzo, quando quel sangue di vita ingenua si   rapprese con tutta la sua dolcezza, schiacciandosi sul mio   orizzonte di adolescente e trasformandosi in ciò che resta:   un simbolo.

  L’adolescenza è un’età senza Dio, in cui – per una sorta   di  rovesciamento dei termini – il principio di realtà, cui   l’idea catechistica di Dio è saldamente ancorata, viene   continuamente perturbato e stravolto dall’esperienza del   piacere. La fuga dall’infranta plenitudine infantile, con “la   fine del mondo perfettissimo”, è in questi versi   l’abbandono  di quell’idea di Dio, di cui il presepe è   custode e cuna di certezze, ridotte d’emblée a cimeli e   feticci spenti. Anche se qualcosa poi è filtrato negli anni di   gioventù; come l’immagine della statuina del “pastore /   acefalo” per pigrizia non ricomposta, che tante volte con   commozione mi sono immaginato presentarsi così   conciata nella valle di Giosafat il giorno del giudizio! Una   colpa d’inettitudine infantile mi si trascinava (si è   trascinata  a lungo) nel ricordo di quella testa staccata (e   di  quel “mondo”) …  

 … Ora però, da quella sorgente dell’albero, quel pastore e   quel mondo rifluivano più forte fino a me e si mescolavano   a immagini più liete, anche di altri presepi: quello delle   monache dell’asilo, grande tutta una stanza, li superava   tutti. Proprio nell’antro buio e pauroso dello spogliatoio-   lavatoio, per noi bambini luogo reprobo di punizioni,   proprio lì si accendeva lo charme della notte più bella. E   com’era pieno e infinito l’attimo in cui la monetina restava   in sospensione nell’innesco luci-carillon! L’attesa di quel   Tac era il buio fulminato dall’atto della creazione, l’apicale   Fiat lux di una più tarda (ma non più fervida)   immaginazione.   

  È laggiù, nel gorgo di antiche profondità, buie eppure   antropiche, che s’intrecciano i fili di pietà religiosa e   credenze ingenue di una collettività, fino di una millenaria   civiltà; lontananze irrecuperabili – è vero – ma alle quali   col  Natale siamo tutti disposti a ricongiungerci, ciascuno a   suo modo  oltre ogni resistenza di sovrastruttura religiosa   o  culturale contraria, proprio mentre, anno dopo anno, si   fa  più cruda in noi la lotta tra ritualità e caducità, tra ciò   che ritorna e ciò che s’è perduto. Che – a esser sinceri – è   lì la vera ragione per cui il mio albero è ogni anno lo   stesso: porre un argine – ahimè illusorio e transitorio –   all’altra metà di noi: il tempo. “Mais ou sont les neiges   d’antan?” ci ripetiamo anche noi, ‘io son rimasto e il tempo   se n’è andato’(che pare un verso di Pascoli … e non è). 

 Col candore necessario, ogni creatura ragionevole di   qualsivoglia età e cultura affida in continuazione agli   oggetti, ai ninnoli apotropaici dell’esistenza quotidiana il   potere di scongiurare il tempo. Dunque a chi è esangue   chiediamo sangue di salvezza, chiediamo tempo a chi non   ha tempo, a chi non sente il tempo e ne è immune. In   questo senso anche la poesia può eleggersi a oggetto,   carillon, scrigno di formule che ripete all’infinito i suoi   versi;  con una facoltà in più però: di saper provocare e   custodire il misterioso meccanismo della memoria,   sapendo conservare e ri-suscitare a vita seconda attimi   che più di altri ci pare meritino una loro minuta eternità. 

 So io, a riabbracciarli, la felicità che danno quei ricordi!   Che questi versi siano la loro casa, la loro Terra Promessa.   

 

 

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