09 Settembre 2025

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Una strage ignorata: intervista a chi dà voce alle morti sul lavoro

Una strage ignorata: intervista a chi dà voce alle morti sul lavoro

di Yuleisy Cruz Lezcano

 

Quando ho contattato Piero Santonastaso per proporgli di pubblicare una delle mie poesie dedicate alle morti sul lavoro, non immaginavo che quel gesto avrebbe aperto la porta a una connessione profonda, umana e civile. Entrambi, seppure da prospettive diverse, lui con la cronaca e la memoria, io con la parola poetica, riceviamo da tempo messaggi di ringraziamento da parte dei familiari delle vittime. È un filo invisibile che unisce chi si impegna a dare un volto, una voce e una dignità a chi ha perso la vita lavorando. Piero Santonastaso è nato il 30 giugno 1955. Giornalista di lungo corso, ha dedicato oltre trent’anni al Messaggero, dove ha ricoperto ruoli di grande responsabilità: dagli esordi nello sport nel 1983, all’assunzione nelle redazioni romagnole nel 1988, fino al passaggio a Roma al servizio Interni e all’ufficio del redattore capo centrale. Ha diretto il portale Caltanet, co-diretto il servizio Cultura e Spettacoli, e nel 2007 ha creato il sito ilmessaggero.it, tornando infine a dirigere Cultura e Spettacoli fino al prepensionamento nel 2013. Ma è proprio dopo quella fase che Santonastaso ha scelto di non smettere di raccontare. Dal 2013 al 2023 ha curato l’ufficio stampa dell’Unione Sindacale di Base, approfondendo il tema delle morti sul lavoro con puntualità e rigore. Da questa esperienza è nata la pagina Facebook e Instagram “Morti di lavoro”, che oggi rappresenta una delle fonti più costanti, documentate e umane sul tema in Italia. Ogni giorno Piero aggiorna il suo bollettino: non solo numeri, ma storie, volti, contesti, e riflessioni che denunciano un’emergenza che, troppo spesso, viene derubricata a “fatalità”.

In questa intervista, Piero racconta l’origine del suo impegno, la sua visione sul ruolo delle istituzioni e dei media, le falle del sistema normativo, e l’urgenza di costruire una vera cultura della sicurezza. Una conversazione franca, intensa, necessaria, perché, come ci siamo detti sin dal primo scambio, le vite spezzate sul lavoro non possono restare solo statistiche: devono tornare ad essere storie da raccontare, da ricordare, da onorare.

D: Piero, partiamo dal principio. Come nasce il suo impegno in questo campo, dopo una lunga carriera al Messaggero?

R: Più che “dopo” direi “durante”: il giornalista che fa desk si confronta quotidianamente con gli argomenti più disparati, ivi comprese quelle che i media continuano a chiamare eufemisticamente morti bianche. Anni fa ebbi modo di interloquire con Marco Bazzoni, metalmeccanico toscano delegato alla sicurezza, attivissimo nel settore, e iniziai a considerare l’argomento sotto una luce diversa. Poi, come responsabile dell’ufficio stampa all’Unione Sindacale di Base, diventò uno dei temi principali del mio lavoro, grazie anche ai contatti con Rete Iside. Già allora tenevo una “contabilità” quotidiana per il bollettino interno di USB. Infine, da tre anni a questa parte, la decisione di condividere quel lavoro su Facebook e Instagram.

D: Perché, secondo lei, le morti sul lavoro in Italia non sono vissute come una vera emergenza nazionale?

R: Come in una guerra, viene pacificamente accettato il concetto del “danno collaterale”: l’economia nazionale, il Pil, la crescita, il profitto, presuppongono l’idea che qualcuno producendo ricchezza per qualcun altro possa rimetterci la vita. Da sempre siamo stati abituati, tutti, a considerare la cosa inevitabile. È questo il concetto da smantellare. 

D Quando si dice “la sicurezza sul lavoro è un lusso per pochi”, cosa si intende?

R: A forza di considerare la sicurezza un costo che zavorra le aziende e le imprese individuali ecco che diventa naturale, nell’ottica del sistema economico capitalistico, cercare di limitare al massimo la spesa e, nei casi peggiori, di abolirla del tutto.

D: Che idea si è fatto dell’efficacia delle attuali politiche sanzionatorie? Ha senso inasprire le pene?

R: È un discorso complicato. Oggi vengono irrogate pene e sanzioni che lasciano il tempo che trovano: le condanne per le morti sul lavoro, quando arrivano, sono sempre per omicidio colposo e al minimo della pena, quasi sempre con la condizionale. Trovo personalmente giusta l’idea di introdurre una nuova fattispecie di reato, l’omicidio e le lesioni gravi sul lavoro, come è stato fatto per l’omicidio stradale. Pene adeguate e certezza della loro applicazione.

D: Parliamo di agricoltura. Oltre 670mila trattori senza dispositivi di sicurezza. Perché lavorare nei campi, oggi, è ancora così pericoloso?

R: Mi aggancio al discorso della sicurezza come lusso: le lobby del settore, Confagricoltura in testa, non intendono esporre gli associati a pesanti esborsi per innovare il parco macchine, né obbligarli ad aggiornamenti. Ecco perché da dieci anni non si riesce a partorire il decreto attuativo per la revisione delle macchine agricole. La sua mancanza costringe a eterni rinvii: allo stato i trattori immatricolati tra il 1984 e il 1996 vanno revisionati entro il 31 dicembre di quest’anno, quelli degli anni successivi entro il 31 dicembre 2026. Ma siccome il decreto continua a non esserci, andiamo incontro a un nuovo rinvio. Trovo comunque aberrante che si possa soltanto pensare di regolarizzare macchine con 40 anni di vita operativa. E nelle nostre campagne ne circolano anche di più vetuste.

D: Secondo l’Osservatorio Vega, nei primi sei mesi del 2025 ci sono state 502 morti sul lavoro. Ma si dice che i numeri reali sono ben più alti. Perché c’è questa discrepanza?

R: L’Osservatorio Vega lavora sui dati Inail, che significa prendere in considerazione soltanto i casi denunciati all’istituto. Se denuncia non c’è, perché la categoria non rientra tra quelle assicurate o perché siamo di fronte a lavoro nero, per la contabilità Inail quel morto non esiste. Teniamo presente che stiamo parlando di circa il 20% della platea dei lavoratori italiani, per non dire del “nero”.

D: Conosce o è in contatto con l’Osservatorio Indipendente di Bologna curato da Carlo Soricelli? Che opinione ha del suo lavoro?

R: Conosco l’Osservatorio ma non personalmente Soricelli. È un benemerito perché da anni si batte per portare alla luce un tema negletto. Però non condivido né le sue metodiche né, per conseguenza, i numeri che produce.

D: Guardando i dati, i settori più colpiti sono costruzioni, manifattura, agricoltura, trasporti e commercio. Perché proprio questi? E cosa si potrebbe fare di concreto per cambiarli?

R: L’agricoltura è in assoluto il settore che sta peggio, un po’ per i discorsi fatti sui trattori, molto perché fortemente esposto al caporalato e allo sfruttamento degli immigrati. La mancanza di controlli fa il resto. In scala possiamo applicare lo stesso ragionamento all’edilizia, dove dominano il subappalto e il “nero” e la sicurezza è veramente un lusso. La recente introduzione della patente a crediti per le imprese è solo una foglia di fico che non ha aumentato di un millimetro la sicurezza nei cantieri.

Per i trasporti, soprattutto l’autotrasporto, sottolineo che i morti vengono considerati vittime della strada e non del lavoro.

D: Si parla tanto di “cultura della sicurezza”. Ma la vede crescere davvero nel Paese? I media stanno facendo abbastanza?

R: No. Risposta secca a entrambe le domande.

D: Cosa direbbe a un giovane giornalista che vuole raccontare il lavoro, oggi? E a un giovane lavoratore che entra in fabbrica o su un cantiere?

R: Al primo direi di rinunciare, se l’idea è di farlo attraverso i media tradizionali: non sono interessati all’argomento oppure aderiscono all’idea del “danno collaterale”. Al secondo suggerirei di non isolarsi, di verificare la presenza di RLS, di associarsi a un’organizzazione sindacale, meglio se non “chiacchierata”.

D: Quanto conta oggi l’impegno della politica e delle istituzioni nella lotta alle morti sul lavoro? Sta vedendo segnali concreti o solo parole?

R: Nulla. Proprio perché producono soltanto parole.

D: Molti incidenti avvengono non perché mancano i dispositivi di protezione individuale, ma perché non vengono usati correttamente. Quanto è diffusa questa falsa percezione di sicurezza, soprattutto tra i lavoratori più esperti?

R: Domanda scivolosa. È una questione di educazione al rispetto delle regole, che prima di tutto vanno insegnate. Se manca l’insegnamento, l’aggiornamento, ci sarà sempre qualcuno che considererà un’imbracatura o un telaio antiribaltamento un inutile orpello.

 

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