Claudio Cencetti: da una poesia sul presepe alle profondità del Natale
di Claudio Cencetti
Da un punto preciso dell’albero si fa via via più insistente un ricordo: è quello del presepe d’infanzia e della sua fine in età adolescenziale. La poesia accoglie e salva nella letizia il passato che ritorna.
L’autore Claudio Cencetti riflette sul senso laico e antropologico della ritualità muovendo dai versi di una sua poesia.
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Natale: esodi
Pulsano col tic-tac di un firmamento meraviglie di vetro esili brame di luce antichi soffi entro un folto di fili d’argento, e un pulsar, proprio un pulsar sotto la stella cimale, che risale anni luce dal cielo d’infanzia …
È la storia di un popolo di gesso sepolto nel cartone. Quando il cielo di carta fu strappato fu la fine del mondo perfettissimo, non fu più gloria a Dio, né al suo creato, anzi l’Eccelso, anch’esso, fu riposto e poi dimenticato con la colla e lo strazio del pastore acefalo (così all’ira di Giosafat?), coi tuguri di sughero, insieme al fuoco della lampadina fioco, insieme al tuffo delle cinque lire breve nel carillon ... Per il popolo eletto è l’attesa dei giusti, che è infinita, Egitto, Babilonia … … ma ora, ora sorgete pastori, ed esultate alla terra promessa e venite, venite, per voi è edificata questa casa, traete i greggi dai duri involti, spargete ancora le nevi di un tempo sopra i muschi puerili, issate stella e cartigli sul buio e poi venite, venite, per voi è edificata questa casa … Così, al ticchettio del nume elettrico, dolce ironia dei miei visi camusi, lontane ricolme ritornano autostrade.
(Da: Valdelsane e altre poesie, Betti editrice, 2023) |
Ogni anno a Natale il mio albero replica se stesso, riappare in edizione ne varietur, perché non oso smontarlo e rimontarlo: è troppa la paura che qualche vetro, infrangendosi, si polverizzi. Tempo fa mi accorsi che un punto dell’albero – quello in cui anno dopo anno brillava una vecchia palla concava e fiammante – più di altri mi fermava lo sguardo: da lì, ogni volta, presentivo tracce di lontani ricordi. Bucando con insistenza quel vetro, compresi che chi vi risaliva con leggerezza era il mio presepe d’infanzia (quando si diceva presepio); del resto, presepe e albero erano per me coetanei, nati insieme quand’ero bambino. Trovato il bandolo, non restava che sfilare l’intera matassa. Ecco allora – rimontanti dai miei primordi – volti, pose, forme e colori di quel popolino di gesso; e poi, con un senso di debole lacerazione, anche la sua fine, appena divenni ragazzo, quando quel sangue di vita ingenua si rapprese con tutta la sua dolcezza, schiacciandosi sul mio orizzonte di adolescente e trasformandosi in ciò che resta: un simbolo. L’adolescenza è un’età senza Dio, in cui – per una sorta di rovesciamento dei termini – il principio di realtà, cui l’idea catechistica di Dio è saldamente ancorata, viene continuamente perturbato e stravolto dall’esperienza del piacere. La fuga dall’infranta plenitudine infantile, con “la fine del mondo perfettissimo”, è in questi versi l’abbandono di quell’idea di Dio, di cui il presepe è custode e cuna di certezze, ridotte d’emblée a cimeli e feticci spenti. Anche se qualcosa poi è filtrato negli anni di gioventù; come l’immagine della statuina del “pastore / acefalo” per pigrizia non ricomposta, che tante volte con commozione mi sono immaginato presentarsi così conciata nella valle di Giosafat il giorno del giudizio! Una colpa d’inettitudine infantile mi si trascinava (si è trascinata a lungo) nel ricordo di quella testa staccata (e di quel “mondo”) … … Ora però, da quella sorgente dell’albero, quel pastore e quel mondo rifluivano più forte fino a me e si mescolavano a immagini più liete, anche di altri presepi: quello delle monache dell’asilo, grande tutta una stanza, li superava tutti. Proprio nell’antro buio e pauroso dello spogliatoio- lavatoio, per noi bambini luogo reprobo di punizioni, proprio lì si accendeva lo charme della notte più bella. E com’era pieno e infinito l’attimo in cui la monetina restava in sospensione nell’innesco luci-carillon! L’attesa di quel Tac era il buio fulminato dall’atto della creazione, l’apicale Fiat lux di una più tarda (ma non più fervida) immaginazione. È laggiù, nel gorgo di antiche profondità, buie eppure antropiche, che s’intrecciano i fili di pietà religiosa e credenze ingenue di una collettività, fino di una millenaria civiltà; lontananze irrecuperabili – è vero – ma alle quali col Natale siamo tutti disposti a ricongiungerci, ciascuno a suo modo oltre ogni resistenza di sovrastruttura religiosa o culturale contraria, proprio mentre, anno dopo anno, si fa più cruda in noi la lotta tra ritualità e caducità, tra ciò che ritorna e ciò che s’è perduto. Che – a esser sinceri – è lì la vera ragione per cui il mio albero è ogni anno lo stesso: porre un argine – ahimè illusorio e transitorio – all’altra metà di noi: il tempo. “Mais ou sont les neiges d’antan?” ci ripetiamo anche noi, ‘io son rimasto e il tempo se n’è andato’(che pare un verso di Pascoli … e non è). Col candore necessario, ogni creatura ragionevole di qualsivoglia età e cultura affida in continuazione agli oggetti, ai ninnoli apotropaici dell’esistenza quotidiana il potere di scongiurare il tempo. Dunque a chi è esangue chiediamo sangue di salvezza, chiediamo tempo a chi non ha tempo, a chi non sente il tempo e ne è immune. In questo senso anche la poesia può eleggersi a oggetto, carillon, scrigno di formule che ripete all’infinito i suoi versi; con una facoltà in più però: di saper provocare e custodire il misterioso meccanismo della memoria, sapendo conservare e ri-suscitare a vita seconda attimi che più di altri ci pare meritino una loro minuta eternità. So io, a riabbracciarli, la felicità che danno quei ricordi! Che questi versi siano la loro casa, la loro Terra Promessa. |
