Ancora una tragedia che non dovrebbe esistere: Miriam Oliviero, 24 anni, è stata trovata senza vita a Siena. Negli ultimi mesi nello stesso territorio si sono registrati altri casi di giovani coinvolti in gesti estremi, uno a Siena, altri due tentati a Poggibonsi. Tre episodi in pochi mesi: non sono soltanto cronaca, ma l’allarme di una generazione in difficoltà. Grida di dolore che raccontano un disagio profondo, diffuso e troppo spesso ignorato.

Parlare di suicidi giovanili non è facile, ma è necessario. Dietro ogni gesto estremo c’è una solitudine che non è soltanto personale: è il riflesso di una società che non sa più ascoltare, che pretende resilienza ma fatica a offrire sostegno. I giovani vivono in un tempo di grandi incertezze: il lavoro che non arriva, relazioni che cambiano, aspettative spesso disattese. I giovani vivono in un tempo incerto, in cui il futuro fa paura e la fragilità è ancora un tabù.

Una questione di salute pubblica e culturale

Le forme di disagio come ansia, depressione, isolamento aumentano tra gli under 30. I servizi di salute mentale per giovani non sempre riescono a intercettare i segnali, mentre scuole e atenei dispongono di strumenti spesso inadeguati. Nel frattempo i social network, pur connettendo, amplificano la solitudine, il confronto costante, la paura di non essere “abbastanza”, il sentimento di inadeguatezza: il confronto permanente diventa una misura fissa del proprio valore. 

Non è solo un’emergenza sanitaria: è una frattura culturale e sociale. I giovani chiedono senso, relazioni vere, spazi di ascolto. E noi adulti, troppo presi dalle nostre crisi, non abbiamo saputo creare luoghi in cui sentirsi accolti. Non abbiamo insegnato che chiedere aiuto non è una debolezza, ma un atto di coraggio.

Non solo numeri: storie e responsabilità

Ricordare Miriam e gli altri non è indulgere al dolore, ma assumersi una responsabilità collettiva. Serve ripensare i luoghi dell’educazione, della cura e della comunicazione. Serve una nuova cultura che renda possibile chiedere aiuto senza vergogna. Serve una nuova cultura della vicinanza, dove nessuno si senta più solo. Chiedere aiuto è un atto di coraggio, non un segnale di debolezza.

Perché finché continueremo a leggere notizie come quella di Miriam Oliviero senza cambiare nulla, continueremo a essere complici di quel silenzio che ogni giorno uccide i nostri giovani più fragili.

Se riconosci segnali di disagio in te o in chi ti sta vicino, non aspettare. Parlare può salvare

Che cosa chiedere ai decisori

Le istituzioni locali e nazionali devono investire su centri di ascolto efficaci, formazione per insegnanti e operatori, e campagne pubbliche che normalizzino la ricerca di aiuto. Le comunità devono imparare a osservare, a non liquidare i segnali come “fasi passeggere”. È necessario creare reti che tengano insieme scuola, servizi sociali, famiglie e terzo settore.

Un invito alla solidarietà

La memoria di chi abbiamo perso si onora innanzitutto con azioni concrete: disponibilità all’ascolto, formazione diffusa, potenziamento dei servizi. Finché ignoreremo il disagio con indifferenza, ogni cronaca resterà una ferita aperta.

© NelQuotidiano.news — Editoriale pubblicato il 1 novembre 2025