Salim El Maoued: medico, poeta e attivista palestinese tra esilio, medicina e ricerca di pace
di Yuleisy Cruz Lezcano
Salim El Maoued non è solo un medico affermato; è un palestinese, profugo, poeta e attivista, la cui vita è stata plasmata dalla Nakba e dalla ricerca incessante di un luogo sicuro dove potersi affermare. Arrivato in Italia nel 1982, in fuga dall'invasione israeliana del Libano, ha lottato tra studio e lavoro per realizzare il sogno di una vita: dedicarsi alla medicina e all'aiuto degli altri.
In questa profonda intervista curata da Yuleisy Cruz Lezcano, El Maoued ripercorre il suo doloroso viaggio dall'infanzia di rifugiato a Sidone fino all'integrazione nel contesto italiano. Riflette sulla complessità del conflitto israelo-palestinese, sulla solidarietà verso l'Olocausto, sull'asimmetria di potere nel Medio Oriente e sulle possibili strade per una pace basata su giustizia, dignità e diritto internazionale. Un dialogo toccante che offre uno sguardo lucido e personale sulla storia e il futuro di un popolo.
Salim, mi parli di lei: chi è, come si definirebbe oggi?
Oggi, Salim El Maoued è un medico e attivista palestinese. La mia vita è stata un percorso costellato di sacrifici, necessari per arrivare dove sono ora, e ne sono profondamente orgoglioso.
Essere un palestinese che proviene da una situazione di profugo significa affrontare sfide enormi per integrarsi e affermarsi in un paese straniero. Nonostante le difficoltà, sono determinato a continuare a impegnarmi per la mia comunità e per i miei ideali.
So che la strada è ancora lunga e in salita, ma sono pronto ad affrontarla con coraggio e determinazione, portando avanti il mio impegno civile e professionale.
Quando è arrivato in Italia? Quali erano le sue aspettative allora?
Sono arrivato in Italia nell'ottobre del 1982.
La mia partenza dal Libano è avvenuta in un momento particolarmente difficile, subito dopo l'invasione israeliana del Libano iniziata nel giugno dello stesso anno, che aveva colpito duramente le comunità palestinesi. Ho preso il primo volo disponibile da Beirut con destinazione l'Italia, sperando di trovare un luogo sicuro dove poter continuare a studiare. All'epoca, la mia principale aspirazione era completare gli studi e laurearmi in medicina, nonostante le difficoltà economiche che dovevo affrontare.
Per otto anni, ho studiato e lavorato contemporaneamente, affrontando turni massacranti e privazioni, per potermi permettere di realizzare il mio sogno di diventare medico e poter aiutare gli altri.
Che percorso di studi ha seguito? E cosa l'ha portata a scegliere la medicina?
Ho frequentato un liceo scientifico in Libano, dove ho conseguito la maturità con ottimi risultati. Sono stato riconosciuto come il miglior studente del sud del Libano e premiato da un'organizzazione locale, la Sumut.
Fin da giovane, sognavo di diventare medico, spinto dal desiderio di alleviare le sofferenze delle persone e di contribuire al benessere della mia comunità. Tuttavia, in Libano non c'erano molte opportunità per realizzare questo sogno, soprattutto per i rifugiati palestinesi.
In Italia, invece, ho avuto la possibilità di sostenere il test di ammissione all'università e l'ho superato.
Rispetto al Libano, l'accesso agli studi di medicina in Italia era più accessibile e meno discriminatorio, offrendomi una concreta possibilità di realizzare le mie aspirazioni.
Cosa l'ha spinta a restare in Italia? È stata una scelta o una necessità?
La mia decisione di rimanere in Italia è stata dettata sia da una scelta personale che da una necessità. Da un lato, volevo a tutti i costi diventare medico e l'Italia mi offriva questa opportunità, grazie a un sistema universitario più aperto e inclusivo.
Dall'altro, i palestinesi non avevano il diritto di esercitare la professione medica nel proprio paese, a causa delle restrizioni imposte dall'occupazione israeliana e dalle discriminazioni nei confronti dei rifugiati. Pertanto, non avrei potuto realizzare il mio sogno in Palestina.
L'Italia è stata un paese che mi ha dato tanto, soprattutto la possibilità di lavorare, studiare e costruirmi un futuro dignitoso, cosa che mi sarebbe stata negata nella mia terra d'origine.
Che ricordi ha della sua infanzia in Palestina? Come descriverebbe la sua esperienza da bambino in una terra segnata dal conflitto?
In realtà, non sono nato in Palestina, ma a Sidone, in Libano, vicino al campo profughi di Ain al-Hilweh.
Tuttavia, i miei genitori mi hanno sempre trasmesso l'amore e l'importanza della Palestina, in particolare di Nazareth, una città ricca di storia, cultura e significato religioso.
La mia infanzia è iniziata come profugo palestinese, erede di una famiglia costretta a lasciare la propria terra durante la Nakba ("catastrofe"), l'esodo palestinese del 1948, in seguito alla creazione dello Stato di Israele. Eravamo una famiglia numerosa, dieci tra fratelli e sorelle, e vivevamo in un ambiente affollato e precario in una terra che non era la nostra, anche se in un paese fratello. Nonostante ciò, la mia infanzia è stata vivace e piena di gioia, grazie all'amore e alla solidarietà della mia famiglia e della comunità palestinese.
Eravamo molto uniti e ci sostenevamo a vicenda, creando un contesto ricco di affetto e calore, nonostante la povertà e le difficoltà economiche.
Fin da piccolo, ho dovuto imparare a fare tutto da solo e ho lavorato durante l'estate per pagarmi gli studi. Giocavo e studiavo, cercando di vivere una vita normale nonostante le circostanze.
Dopo aver trascorso i primi dieci anni della mia vita come profugo, la perdita di mio padre e l'inizio della guerra civile in Libano nel 1975 mi hanno reso ancora più responsabile.
Mi occupavo del nostro bazar e, quando non studiavo, lavoravo per portare il pane a casa. A soli 13-14 anni, stavo già maturando rapidamente, grazie al contatto con le persone e all'impegno di provvedere alla mia famiglia.
Nonostante tutto, la mia infanzia è stata bella, attiva e ricca di esperienze.
Conservo bei ricordi, nonostante la guerra, la perdita dei miei cari e le difficoltà della vita da rifugiato.
Lei come interpreta un conflitto così antico, le cui origini si perdono nel tempo?
Questo conflitto ha segnato purtroppo la mia vita e quella di milioni di palestinesi, specialmente in questo momento storico. Non lo vedo semplicemente come una disputa territoriale o una questione politica, ma come una profonda e complessa tragedia e ingiustizia.
Le sue radici affondano in una storia di rivendicazioni contrapposte, nazionalismi e, a mio avviso, errori e omissioni che non sono mai stati adeguatamente riconosciuti e affrontati.
Se vogliamo davvero comprendere la situazione attuale, dobbiamo avere il coraggio di guardare indietro, alla fine del diciannovesimo secolo, quando l'ascesa del movimento sionista e l'aspirazione a creare uno Stato ebraico in Palestina si sono scontrate con la realtà di una terra già abitata da una popolazione araba autoctona, con una propria identità, cultura e storia millenaria. La Dichiarazione di Balfour del 1917, pur rappresentando un momento storico cruciale per il popolo ebraico, ha in qualche modo gettato le basi per le future tensioni, promettendo un "focolare nazionale" in una terra che non era disabitata.
La Nakba del 1948, con la creazione dello Stato di Israele e il conseguente esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, ha rappresentato una ferita insanabile, aperta tutt'oggi.
Da allora, il conflitto si è alimentato di occupazione, violenze, disuguaglianze economiche e sociali, e di una serie di occasioni mancate per costruire una pace giusta e duratura.
Ma nonostante tutto, continuo a credere che la pace sia possibile, se solo ci fosse la volontà politica e il coraggio di guardare al futuro con occhi nuovi, riconoscendo le sofferenze di entrambe le parti e impegnandosi a costruire un futuro di giustizia, dignità e sicurezza per tutti.
Di recente ho visitato il Museo Polin a Varsavia, in Polonia, che documenta la storia dell'ebraismo e l'Olocausto. Cosa pensa lei di quella tragedia?
Come palestinese, cresciuto in un contesto di conflitto e sofferenza, sento il bisogno di esprimere il mio profondo rispetto e la mia sincera solidarietà per le vittime dell'Olocausto, una delle più grandi tragedie della storia umana.
L'Olocausto ci ricorda l'importanza di difendere i diritti umani, di promuovere la tolleranza e il rispetto reciproco, e di combattere ogni forma di antisemitismo e razzismo. Come palestinese, so cosa significa essere vittima di ingiustizie e privazioni, e per questo sento una profonda empatia per il popolo ebraico e per le sofferenze che ha subito nel corso della storia.
Credo che sia fondamentale che le nuove generazioni conoscano la storia dell'Olocausto, affinché possano imparare dal passato e impegnarsi a costruire un futuro di pace, giustizia e riconciliazione per tutti.
Io personalmente non credo che i due eventi - l'Olocausto e il conflitto israelo-palestinese siano paragonabili. In Palestina, oggi, c'è una guerra tra due popoli, anche se uno indubbiamente molto più forte e con una reazione che appare fuori misura. Condivide questa lettura?
Comprendo perfettamente la sua domanda, personalmente, ritengo che sia importante evitare paragoni semplicistici o riduttivi tra l'Olocausto e il conflitto israelo-palestinese, poiché si tratta di due eventi storici profondamente diversi, con cause, dinamiche e conseguenze specifiche.
Trovo che entrambe le tragedie condividano delle logiche di disumanizzazione e di violenza estrema contro i civili, ma differiscano profondamente per la loro natura, il loro contesto e la loro intenzione.
L'Olocausto è stato un tentativo sistematico e pianificato di annientare un intero popolo, sulla base di una folle ideologia razziale, mentre il conflitto israelo-palestinese è una complessa disputa territoriale e politica tra due popoli che rivendicano la stessa terra, con una lunga storia di violenze, occupazione e privazioni. Molti storici rifiutano un'assimilazione diretta, pur riconoscendo che le lezioni dell'Olocausto dovrebbero servire a prevenire qualsiasi altra distruzione di massa della popolazione, qualunque ne sia la forma.
Tuttavia, credo anche che sia importante riconoscere che entrambi gli eventi hanno causato immense sofferenze e che entrambi sollevano questioni fondamentali sulla giustizia e la dignità umana. Come palestinese, non posso ignorare la profonda asimmetria di potere tra Israele e i palestinesi, e il fatto che la reazione israeliana, in molte occasioni, appaia sproporzionata e ingiustificabile, soprattutto quando colpisce indiscriminatamente civili innocenti.
Credo che la comunità internazionale abbia il dovere morale di garantire che i diritti umani e il diritto internazionale siano rispettati da tutte le parti coinvolte, e di adoperarsi con ogni mezzo per una soluzione giusta e duratura del conflitto, che tenga conto delle legittime aspirazioni di entrambi i popoli. In definitiva, credo che sia fondamentale imparare dalle lezioni del passato, riconoscere le sofferenze di tutte le vittime e impegnarsi a costruire un futuro di pace, giustizia e riconciliazione per tutti, senza fare paragoni impropri o minimizzare le responsabilità di nessuno.
Le lezioni dell'Olocausto dovrebbero guidarci nella prevenzione di qualsiasi forma di violenza di massa e nella protezione dei diritti di tutti i popoli, ovunque essi si trovino.
Israele ha goduto e gode tuttora di un forte appoggio da parte dei Paesi occidentali. Secondo lei, quanto incide questo appoggio nello squilibrio del conflitto?
È innegabile che il sostegno di cui Israele gode da parte dei Paesi occidentali, in particolare degli Stati Uniti, giochi un ruolo significativo sullo squilibrio di potere nel conflitto israelo-palestinese. Questo sostegno si manifesta in forma politica, economica e militare, ed è generato da diversi fattori, tra cui il senso di colpa europeo dopo l'Olocausto e la percezione di Israele come un alleato strategico in Medio Oriente.
A mio avviso, questo sostegno, slegato da qualsiasi reale progresso verso la pace, finisce per rafforzare la posizione di Israele a scapito dei diritti della comunità palestinese.
Di conseguenza, consente a Israele di continuare l'occupazione dei territori palestinesi, di espandere gli insediamenti illegali in Cisgiordania, e di attuare politiche che violano i diritti umani dei palestinesi, come il blocco di Gaza o la demolizione di case e strutture pubbliche.
Senza questo massiccio sostegno esterno, Israele sarebbe probabilmente costretto a confrontarsi seriamente con le legittime richieste dei palestinesi e a negoziare una soluzione pacifica e giusta al conflitto, basata sul rispetto del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Ciò non significa, ovviamente, che i Paesi occidentali siano gli unici responsabili del conflitto, ma è chiaro che le loro politiche influenzano in modo significativo l'evoluzione della situazione.
A mio parere, un approccio più equilibrato da parte dei Paesi occidentali, fondato sul rispetto del diritto internazionale, sul riconoscimento dei diritti di entrambi i popoli e sull'impegno attivo per una soluzione negoziata, potrebbe contribuire in modo significativo a una pace più giusta e duratura in Medio Oriente.
La comunità internazionale, e in particolare i Paesi che si ergono a paladini dei diritti umani, devono assumersi la responsabilità di promuovere la pace e la giustizia nella regione, esercitando pressioni concrete su Israele affinché ponga fine all'occupazione, rispetti i diritti dei palestinesi e si impegni in un negoziato serio e costruttivo.
Dal lato palestinese, crede che ci sia una volontà reale di porre fine al conflitto, oppure l'odio accumulato negli anni predomina ancora troppo?
Nonostante le immense sofferenze, le frustrazioni accumulate nel corso degli anni e l'odio che inevitabilmente si genera in un contesto di conflitto prolungato, credo fermamente che esista ancora una profonda e radicata volontà di pace nel cuore della maggioranza dei palestinesi.
Il mio popolo, come qualsiasi altro popolo al mondo, aspira a vivere in uno Stato indipendente, sovrano e sicuro, in cui possa esercitare pienamente i propri diritti fondamentali, vivere una vita dignitosa e garantire un futuro migliore ai propri figli.
Tuttavia, la continua occupazione israeliana, l'espansione degli insediamenti verso i territori palestinesi, la demolizione di case, le restrizioni alla libertà di movimento e la mancanza di una prospettiva concreta di pace, alimentano inevitabilmente la disperazione, la rabbia e la frustrazione, rendendo sempre più difficile la costruzione di una pace duratura e sostenibile.
Gaza confina con l'Egitto, ma non sembra esserci alcuna volontà egiziana di integrare Gaza nel proprio sistema economico o sociale. Come interpreta questa chiusura? Oppure non è così?
La chiusura del confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto è una questione estremamente delicata e complessa, che va analizzata tenendo conto di una serie di fattori politici, economici e di sicurezza. L'Egitto, comprensibilmente, teme che un'apertura indiscriminata del confine possa favorire l'infiltrazione di militanti armati e il contrabbando di armi verso Gaza, destabilizzando ulteriormente una regione già instabile.
Tuttavia, è altrettanto innegabile che la prolungata chiusura del confine contribuisca ad isolare completamente Gaza dal mondo esterno, aggravando in modo drammatico la già precaria situazione umanitaria nella Striscia, dove la popolazione civile vive in condizioni di estrema difficoltà, con accesso limitato a beni di prima necessità, cure mediche e opportunità di lavoro.
A mio avviso, l'Egitto, in quanto Paese chiave nella regione, potrebbe svolgere un ruolo molto più attivo e costruttivo nel promuovere la pace e la stabilità in Medio Oriente, aprendo gradualmente il confine con Gaza, facilitando il flusso di aiuti umanitari e di merci, e contribuendo a creare un clima di fiducia e cooperazione tra le parti.
Secondo lei, i Paesi arabi si tengono volutamente a distanza dalla questione palestinese, al di là della solidarietà di facciata?
È vero che i Paesi arabi, per una serie di ragioni complesse e spesso contraddittorie, tendono a mantenere una certa distanza dalla questione palestinese, limitandosi spesso a manifestazioni di solidarietà di facciata.
Le divisioni interne al mondo arabo, le diverse priorità politiche e strategiche dei singoli Paesi, e i timori di destabilizzazione regionale, giocano sicuramente un ruolo importante in questo atteggiamento. Tuttavia, sarebbe ingiusto generalizzare e ignorare il fatto che molti Paesi arabi continuano a sostenere la causa palestinese a livello diplomatico, politico e finanziario, e che la solidarietà con il popolo palestinese rimane un sentimento forte e diffuso nell'opinione pubblica araba.
A mio avviso, i Paesi arabi potrebbero e dovrebbero svolgere un ruolo molto più attivo e incisivo nel promuovere una soluzione giusta e duratura del conflitto israelo-palestinese, esercitando pressioni diplomatiche su Israele affinché rispetti il diritto internazionale e i diritti dei palestinesi, offrendo un sostegno politico ed economico concreto al popolo palestinese, e promuovendo un dialogo costruttivo tra le parti.
Lei pensa che sia possibile, per i palestinesi, costruire una realtà vivibile, una città-stato moderna, autonoma, organizzata?
Nonostante le enormi sfide e le difficoltà che il mio popolo si trova ad affrontare quotidianamente, continuo a credere fermamente che sia possibile per i palestinesi costruire uno Stato moderno, democratico, prospero e vivibile, in cui tutti i cittadini possano godere degli stessi diritti e delle stesse opportunità.
I palestinesi, a mio avviso, hanno le capacità, le competenze, la determinazione e la resilienza necessarie per costruire un futuro migliore per sé stessi e per i propri figli.
Tuttavia, per realizzare questo sogno, è indispensabile porre fine all'occupazione israeliana, garantire ai palestinesi il diritto all'autodeterminazione e creare un ambiente favorevole allo sviluppo economico e sociale, con investimenti in istruzione, sanità, infrastrutture e creazione di posti di lavoro.
La comunità internazionale, a mio avviso, ha il dovere di sostenere attivamente i palestinesi in questo processo, offrendo assistenza finanziaria e politica, е contribuendo a creare un clima di fiducia e cooperazione tra le parti.
A suo avviso, quali potrebbero essere oggi le possibili soluzioni, anche parziali, per porre fine al conflitto o per avviare una vera transizione verso la pace?
A mio avviso, le possibili soluzioni per porre fine al conflitto israelo-palestinese e avviare una vera transizione verso la pace, per quanto difficili da raggiungere, sono porre fine all'occupazione israeliana dei territori palestinesi, che rappresenta la principale causa del conflitto e la fonte di tutte le sofferenze del mio popolo.
Israele deve ritirarsi completamente dai territori occupati nel 1967, smantellare gli insediamenti illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e riconoscere il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e alla sovranità sul proprio territorio. In secondo luogo, è necessario creare uno Stato palestinese indipendente, sovrano e vitale, con Gerusalemme Est come capitale, in grado di garantire la sicurezza e la prosperità del proprio popolo.
In terzo luogo, è necessario trovare una soluzione giusta e equa per il problema dei rifugiati palestinesi, in conformità con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite, che tenga conto delle loro legittime aspirazioni al ritorno e al risarcimento per le perdite subite. Infine, è necessario promuovere la cooperazione regionale tra Israele e i Paesi arabi, al fine di creare un clima di fiducia e stabilità in Medio Oriente.
Queste sono solo alcune delle possibili soluzioni, ma è fondamentale che entrambe le parti siano disposte a negoziare in buona fede al fine di raggiungere una pace duratura e sostenibile, che garantisca la sicurezza, la dignità e la prosperità per tutti.
In Italia e in Europa, sente di poter manifestare le sue vedute geopolitiche con libertà, o avverte dei limiti, anche culturali, nella possibilità di esprimersi?
In Italia e in Europa, in generale, mi sento libero di esprimere le mie opinioni e le mie vedute geopolitiche, anche se avverto, a volte, una certa difficoltà a far sentire la mia voce e a far comprendere appieno la complessità della questione palestinese. Purtroppo, spesso si tende a semplificare eccessivamente il conflitto e a criminalizzare le critiche alle politiche del governo israeliano, equiparandole automaticamente all'antisemitismo. Questo crea un clima che limita la libertà di espressione e impedisce un dibattito aperto e costruttivo sulla questione palestinese.
A mio avviso, è fondamentale distinguere tra la critica legittima alle politiche di un governo, che è un diritto sacrosanto in una società democratica, e l'odio razziale nei confronti di un popolo, che è inaccettabile e va condannato.
La libertà di espressione è un pilastro fondamentale di qualsiasi società democratica, e deve essere garantita a tutti, anche a coloro che esprimono opinioni impopolari o controverse, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge e del diritto degli altri a non essere diffamati o insultati.
