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Violenza infantile: un’emergenza silenziosa che ci riguarda tutti

Violenza infantile: un’emergenza silenziosa che ci riguarda tutti

di Yuleisy Cruz Lezcano

 

La violenza contro l’infanzia è un fenomeno che supera la dimensione statistica e si manifesta come una frattura profonda nelle comunità, nelle famiglie e nelle coscienze. I 40.150 bambini che ogni anno perdono la vita a causa di maltrattamenti, abusi e incuria rappresentano solo la parte visibile di una sofferenza molto più ampia, fatta di esistenze interrotte e di segni indelebili lasciati su migliaia di giovani vite che, pur sopravvivendo, portano per sempre il peso della paura e dell’insicurezza. Le morti sono infatti il punto più estremo di una catena che include abbandono fisico ed emotivo, privazioni, violenze quotidiane taciute o normalizzate, che spesso sfuggono ai servizi sociali e restano confinate nella dimensione privata del nucleo familiare.

Gli studi psicologici, dalla teoria dell’attaccamento di John Bowlby fino alle ricerche neuroscientifiche più recenti, dimostrano che l’assenza di un riferimento affettivo sicuro compromette profondamente lo sviluppo emotivo e cognitivo dei bambini. Chi cresce in un ambiente dove prevalgono paura, minaccia e inaffidabilità apprende strategie di sopravvivenza utili solo a contenere il dolore, non a esplorare il mondo. Questo meccanismo è stato definito dagli antropologi il paradosso del “nido pericoloso”: ciò che dovrebbe essere luogo di protezione diventa teatro di vulnerabilità, come accadeva in certe società arcaiche dove i neonati più fragili venivano esclusi dalla comunità. Oggi, tuttavia, la violenza non deriva dalla scarsità di risorse o da necessità di sopravvivenza, ma da fratture interne alla struttura familiare, spesso correlate a fragilità psicologiche, traumi non elaborati, isolamento sociale o norme culturali che tollerano la coercizione come forma di educazione. Particolarmente devastante è la violenza assistita, sperimentata da un bambino che osserva la sofferenza di un genitore, spesso la madre, vittima di abusi domestici. La ricerca scientifica parla di “stress tossico”, un sovraccarico fisiologico generato dall’esposizione continuativa alla minaccia che modifica lo sviluppo cerebrale, altera la risposta allo stress e compromette la capacità di costruire fiducia. In questi casi la violenza non è solo un evento: è un ambiente, una grammatica emotiva che insegna ai più piccoli a leggere il mondo attraverso la paura o l’aggressività. È un apprendimento sotterraneo che modella i futuri legami affettivi e può generare, in adolescenza o età adulta, ripetizioni inconsapevoli degli stessi schemi.

Ma il fenomeno non si esaurisce nello spazio domestico. La scuola, luogo deputato alla crescita, diventa spesso, come mostrano i dati internazionali, uno scenario di violenze più sottili ma altrettanto incisive, come il bullismo. Uno studente su tre tra gli 11 e i 15 anni dichiara di aver subito prevaricazioni da parte dei pari. Antropologi come Margaret Mead hanno evidenziato come i gruppi giovanili tendano a riprodurre le logiche culturali dominanti: se la società valorizza il potere, la competizione, la forza come mezzo di riconoscimento, tali dinamiche si ripresentano nelle relazioni tra adolescenti. Il bullismo, allora, non è solo lo sbaglio di alcuni individui, ma un sintomo della cultura dell’esclusione e dell’umiliazione che permea vari contesti sociali.

La letteratura ha spesso rappresentato con lucidità il trauma infantile. Dickens, in David Copperfield, descrive un’infanzia segnata dall’abuso e dalla mancanza di amore; Salinger, nel Giovane Holden, restituisce la vulnerabilità di un adolescente disilluso dalla crudeltà del mondo adulto. Harper Lee, ne Il buio oltre la siepe, mostra attraverso gli occhi del piccolo Jem come la violenza sociale, in questo caso, il razzismo, plasmi la percezione morale del bambino. Testimonianze più radicali emergono in Se questo è un uomo di Primo Levi, dove l’infanzia negata dei bambini nei campi di concentramento diventa simbolo dell’annientamento totale; o in Storia di una ladra di libri di Markus Zusak, in cui la giovane protagonista cerca di crescere in un contesto permeato dalla morte e dalla guerra. Questi racconti non sono solo riflessi della sofferenza, ma strumenti di comprensione: mostrano come la violenza, quando colpisce i bambini, lasci un'eco che attraversa generazioni.

In un orizzonte filosofico, Lévinas ricorda che il volto del bambino rappresenta l’espressione più pura dell’alterità, e che la violenza infantile è, prima di tutto, un fallimento etico. È il punto in cui la società smette di riconoscere nell’altro una persona e lo riduce a oggetto. La sociologia, la psicologia e la filosofia convergono in questa diagnosi: la violenza non nasce in un vuoto, ma in un ecosistema sociale che la permette, la banalizza o non la ostacola.

Il Report dell’OMS ribadisce che la violenza è un comportamento che si apprende. Questa constatazione apre uno spiraglio di speranza: ciò che è appreso può essere disimparato. Prevenire significa agire prima che le ferite diventino destino, significa sostenere le famiglie fragili, educare alla gestione delle emozioni, rafforzare i servizi di tutela, costruire scuole capaci di accogliere e proteggere, e sviluppare una cultura pubblica che sostituisca alla logica della forza quella della cura.

La domanda che resta, e che interpella la responsabilità collettiva, è quanto siamo disposti a cambiare affinché il ciclo della violenza non continui a ripetersi. Proteggere l’infanzia non è una scelta assistenziale, ma un investimento morale e sociale: ogni bambino salvato dalla violenza è una possibilità di futuro restituita, un passo verso una società meno ferita e più capace di custodire ciò che ha di più prezioso.

 

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