22 Ottobre 2025

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Lenzuola bianche e coscienze spente

Lenzuola bianche e coscienze spente

Di Yuleisy Cruz Lezcano

 

Nel contare, a volte, non si conta abbastanza ma si elencano statistiche, si registrano denunce, si aprono fascicoli. Ma si dimentica, troppo spesso, che dietro ogni numero c’è un corpo, un volto, un nome, una vita. E si dimentica soprattutto che ci sono morti che sembrano non appartenere a nessuno, come quella di Maria Boschetto, 65 anni, collaboratrice scolastica, caduta mentre puliva una finestra e morta tre giorni dopo nel suo letto, tra le mura di casa, lontana dalla scuola in cui lavorava e dal marciapiede dove aveva battuto la testa. Si è spenta così, in silenzio, come in silenzio lavorava. Il suo nome non sarà inciso su una targa commemorativa e forse non verrà nemmeno riconosciuta come "morte sul lavoro", perché la sua vita si è interrotta dopo essere stata dimessa, perché la lesione forse non è stata considerata abbastanza grave. Eppure è proprio in quel dettaglio che si misura la disattenzione collettiva, il nostro fallimento nel dare valore a ogni esistenza.

Maria era ancora lì, a sessantacinque anni, a pulire vetri pesanti in una scuola ristrutturata solo a metà, era lì come ci sono milioni di altri lavoratori invisibili, tenuti in piedi dalla necessità più che dalla scelta, esposti quotidianamente a un sistema sociale, che sembra ignorare i suoi pilastri più umili. Si contano oltre 78 mila infortuni, mille morti coperti da lenzuola bianche. Ma poi? Poi si riparte, come se nulla fosse. Nessun colpo allo stomaco, nessuna svolta. Solo qualche riga sui giornali e poi il silenzio. Il bianco di quei lenzuoli non è purezza, non è pace ma una coperta gelida sulle coscienze e noi, qui, a vedere di sfuggita il bianco dell’ipocrisia, il colore dell’oblio.

Non riconosciamo che negli occhi fissi nel vuoto, ci sono vite spezzate da un attimo eterno. La caduta, l’impatto, l’urto, il dolore, tutto si consuma in una manciata di secondi, e tutto viene inghiottito da un sistema che preferisce l’efficienza alla memoria, la produttività al lutto, l’apparenza alla verità. Maria è morta nella nostra indifferenza, ma non è un caso isolato. È il risultato diretto di una società che ha fatto della prestazione il suo unico valore, che ha dimenticato che lavorare non dovrebbe significare rischiare la vita. Viviamo dentro città che non sono più nostre. Le percorriamo senza abitarle, senza viverle davvero e non passeggiamo: transitiamo, non sostiamo: consumiamo. Gli spazi urbani si disegnano intorno a logiche di mercato, si svuotano di umanità, si riempiono di merci e pubblicità. Lavoriamo in edifici vecchi, insicuri, spesso fatiscenti, ma ci dicono che va bene così, perché "non ci sono risorse". Le risorse però si trovano sempre per ciò che serve a chi comanda: armi, grandi opere, visibilità, mai per chi tiene in piedi davvero il paese.

Intanto ci tolgono il tempo, quello vero, quello della riflessione, della lentezza, della costruzione di legami. Viviamo secondo una narrazione che ci vuole produttivi, efficienti, disponibili, performanti, una narrazione che colonizza la nostra immaginazione, che ci fa dimenticare che potremmo vivere diversamente. Ci hanno convinti che esistiamo solo se serviamo, solo se funzioniamo, solo se consumiamo. Ma quando smettiamo di essere funzionali, quando cadiamo da una finestra o da una impalcatura, quando veniamo schiacciati da un trattore, quando la strada ci divora mentre andiamo a timbrare il cartellino, allora spariamo. Maria Boschetto è morta per una finestra che non reggeva più, per un piede fratturato, una costola rotta, un pronto soccorso forse troppo svelto, ma soprattutto è morta per un sistema che non riconosce più la fragilità umana come qualcosa da proteggere. La sua morte è una crepa dentro la narrazione dominante, quella che ci vuole obbedienti, instancabili, sacrificabili, ma è anche un appello, un’occasione per smettere di contare solo i numeri, e iniziare finalmente a contare le persone, a restituire nomi e volti alle vite che perdiamo. A ricordarci che ogni giorno, in questo Paese, c’è qualcuno che non torna a casa e che dietro ogni lenzuolo bianco c’è un grido che nessuno vuole sentire.

Viviamo in un tempo che ha smarrito il senso del tempo. Non il tempo misurabile, quello dei calendari e dei turni di lavoro, ma il tempo interiore, quello che ci lega alla memoria, alla storia, e alla profondità dell’esperienza umana. Siamo immersi in un presente continuo, iperaccelerato, in cui ogni evento si consuma e si dimentica alla velocità con cui viene prodotto. Così, anche la morte sul lavoro, uno degli scandali più radicati e persistenti del nostro tempo, diventa cronaca da archiviare, numeri da gestire, rumore di sottofondo nel frastuono della produttività.

Fino a svanire

Il lavoro sputa il sapore dolciastro
d’una fiala che dona un sonno crudele,
non riposo ma abbandono scavato,
una corda invisibile la stringe al gorgo.

Cala lenta, come statua sciolta,
la stessa donna fatta di cera
che il tempo ha deformato in silenzio
mentre puliva finestre d’aria e polvere.

Forse è un inganno, forse la morte
la vuole tenere nel fondo, sospesa,
come foglia strappata da un tronco vanitoso,
che si crede eterno e già si adorna
di gemme nuove, più lucide, più snelle.

Lei giace in un letto che non la scalda,
ombra leggera nel fragore del presente.

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