Una professione al collasso: nessuno vuole più fare l’infermiere
di Yuli Cruz Lezcano
Nessuno più vuole fare l’infermiere? È un’affermazione forte, ma racconta una crisi reale, fatta di numeri, testimonianze, umori, politiche in ritardo, che da tempo rode la sanità italiana. Dietro a quella frase c’è una professione che soffre, che sta quasi collassando, per come è trattata, per quanto è esposta, per come è pagata, nonostante le sue responsabilità.
In questo articolo si prova a ricostruire perché in molti infermieri sono delusi, malpagati, stremati, e perché sempre meno giovani scelgono questa professione. In Italia mancano ormai decine di migliaia di infermieri: il dato più recente del primo Rapporto sulle professioni infermieristiche di FNOPI, insieme alla Scuola Superiore Sant’Anna, stima circa 65.000 infermieri mancanti nel sistema sanitario, sommando realtà ospedaliere e territoriali; nei prossimi dieci anni saranno oltre 110.000 le uscite per pensionamento che aggraveranno la situazione. Non è soltanto una questione numerica: è una questione di come si vive questo lavoro. Gli infermieri denunciano ogni anno migliaia di aggressioni, sia verbali sia fisiche: nel 2023 sono stati circa 97.500 gli infermieri vittime di questo tipo di aggressione; nel 2024 i dati suggeriscono che si sia superata la soglia delle 100.000 aggressioni annuali. In moltissimi casi si tratta di violenze da pazienti, familiari, ma anche pressioni interne, minacce, insulti, intimidazioni.
Vi è poi il problema dello stipendio, che alla fine della giornata pesa tanto quanto i turni notturni. L’Italia è sotto la media europea: secondo il rapporto FNOPI‑Sant’Anna, gli infermieri italiani guadagnano in media 32.700 euro lordi all’anno, contro i circa 39.800 della media europea. Per molti, dopo aver speso anni in formazione, specializzazioni, notti in corsia, lunghe attese e turni, il conto non torna. La percezione che il lavoro sia vissuto come usurante è diffusa, ma la norma non lo riconosce in pieno: certe componenti come i turni notturni o le situazioni particolarmente pesanti non sempre danno diritto a tutele previdenziali adeguate purché formalmente qualificati come “lavoro gravoso” o “esposizione a rischio”.
Altra spina nel fianco è il carico di responsabilità, che spesso non è commisurato agli strumenti, al personale e al riconoscimento. Infermieri che devono fare da ponte tra paziente, medico, famiglia, sostenere le emergenze, gestire il rischio clinico, rispondere del contenzioso, a volte improvvisare perché mancano risorse, dispositivi, supporto.
Il burnout è diventato un fenomeno reale, non più emergenziale. Innumerevoli testimonianze riportano dati di stanchezza cronica, malattie legate allo stress, patologie fisiche da sforzo, dal sollevamento di pazienti alla postura costante, al numero esorbitante di ore di lavoro. L’infermiere italiano spesso si sente “tra l’incudine e il martello”: da un lato le richieste dell’organizzazione sanitaria, che pretende più efficienza, che vengano trattati più pazienti, che ci siano meno tempi morti, più turni, dall’altra le aspettative umane del paziente, della famiglia, della società che si aspetta cure “su misura”, immediate, perfette. E quando qualcosa non va, l’infermiere rischia di essere il capro espiatorio. In questo mix entra anche il tema dell’anzianità. La forza lavoro infermieristica è relativamente “vecchia”: metà degli infermieri ha più di 50 anni; tra un decennio molte uscite saranno per pensionamento. Ma l’età pensionabile non è differente per molti rispetto ad altri lavoratori, pur con livelli di stress e usura molto più elevati.
Le università segnalano – dati alla mano – che il desiderio di intraprendere la professione infermieristica è in declino, soprattutto nelle regioni con maggiori problemi nelle condizioni di lavoro. Le iscrizioni non riescono a colmare il gap che producono le uscite per pensionamento e chi lascia la professione per motivi vari (disaffezione, trasferimento all’estero, burnout). Infine, c’è la questione del riconoscimento: formale, culturale, economico. Si è persa, per molti, la sensazione che essere infermiere equivalga a un mestiere rispettato, pregiato, capace di fare la differenza. Spesso manca la valorizzazione delle competenze specialistiche, la carriera è piatta, il peso burocratico e organizzativo è enorme, e il giudizio esterno (dei pazienti, dei media, delle stesse gerarchie interne) tende a non considerare la complessità del lavoro.Tutto questo insieme, spiega perché sempre più infermieri sono delusi, con la sensazione di aver “sprecato” energie e aspettative, perché, il ritorno umano, economico, è spesso minore della spesa personale. Spiega anche perché tanti giovani evitano oggi di scegliere infermieristica: sanno che il percorso prevede sacrifici senza garanzie adeguate.
Questo però è un problema che si risolve solo aumentando gli stipendi, anche se è certamente necessario; serve un ripensamento sistemico: tutele reali, riconoscimento del lavoro gravoso/usurante, percorso formativo che non lasci debiti invisibili, carichi di lavoro sostenibili, supporto psicologico, aggiornamento professionale, sicurezza sul lavoro, opportunità di carriera, pensionamento con criteri che tengano conto della fatica fisica e mentale.
Ormai la sensazione, tra chi vive la professione infermieristica ogni giorno, è che non resti più nulla da difendere. Le battaglie più importanti sono state perse. I sindacati, pur con tutta la buona volontà e le azioni messe in campo negli anni, si trovano oggi di fronte al desolante bilancio di una lunga serie di sconfitte, prima tra tutte quella sull’inserimento degli infermieri tra le professioni ufficialmente riconosciute come usuranti. Ogni tentativo di far comprendere alla politica la reale fatica fisica e mentale che comporta questo lavoro è rimasto lettera morta. Promesse, tavoli tecnici, mozioni parlamentari, disegni di legge: tutto evaporato. Intanto, chi lavora in corsia continua a invecchiare tra turni massacranti, carichi di responsabilità crescenti e tutele sempre più sfilacciate.
La nuova frontiera indicata da chi governa il sistema sanitario, più che puntare al rafforzamento strutturale della professione, sembra essere un’altra: l’importazione massiva di infermieri da Paesi sottosviluppati. È già una realtà in alcune regioni, dove si reclutano professionisti da Asia, Africa o Sud America, con il dichiarato obiettivo di “tamponare” le carenze di organico, ma la toppa rischia di essere peggio del buco. Non solo per le difficoltà oggettive che questi colleghi incontrano, che vanno dalla lingua alle differenze culturali, dai protocolli sanitari diversi fino alle abitudini del paziente italiano, ma anche perché finiscono, inevitabilmente, per diventare un ulteriore carico di lavoro per chi è già stremato. Saranno proprio gli infermieri italiani a doverli formare sul campo, a spiegare cosa vuol dire lavorare in un reparto italiano, a trasmettere tutto ciò che l’università non può insegnare: la relazione, le sfumature linguistiche, le dinamiche organizzative, la gestione dei conflitti, i gesti non scritti di una professione che vive di contatto, di ascolto, di tempo.Tempo che nessuno ha più.
Il paradosso è che si chiede a chi è già allo stremo di reggere anche questo nuovo “impegno solidale”, senza però riconoscere il valore di ciò che fa, e così si appiattisce tutto. Si continua a vedere l’infermiere come un “tecnico del fare”, intercambiabile, sostituibile, contestualizzabile, e si tradisce ancora una volta il senso profondo delle lotte portate avanti per decenni. Lotte per una professione autonoma, qualificata, rispettata.
Questo modo di procedere non solo rischia di compromettere ulteriormente la qualità dell’assistenza, ma manda anche un messaggio devastante: che il lavoro dell’infermiere può essere delegato, svuotato, ridotto a manodopera da gestire al ribasso. Invece di valorizzare chi ha resistito e continua a resistere nonostante tutto, lo si espone all’ennesima frustrazione. Ancora una volta, si guarda altrove invece di ascoltare chi è già dentro il sistema e continua a portarlo avanti sulle proprie spalle.
Il rischio, molto concreto, è che l’abbandono della professione acceleri e che i giovani, già restii ad avvicinarsi a un mestiere che offre poco in cambio di tanto, vedano in questa ulteriore svalutazione la conferma definitiva: non ne vale la pena.