di Yulesisy Cruz Lezcano
In questi giorni, ovunque, si leggono post preoccupati sulla bassa autostima dei bambini. Bambini piccoli, spesso nemmeno arrivati a dieci anni, che si sentono già inadeguati, sbagliati, insicuri. I genitori si interrogano, si disperano, cercano soluzioni rapide, libri da leggere, professionisti a cui rivolgersi. Ma se vogliamo davvero affrontare questo tema con serietà, dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia il vero problema: i bambini oggi non fanno più nulla da soli, vivono un’infanzia assistita in ogni dettaglio. I genitori si occupano non solo dei compiti scolastici, ma anche del tempo libero, delle relazioni con i coetanei, delle passioni, degli sport, perfino delle emozioni. Quando arriva l’adolescenza, qualcuno si spinge a voler gestire persino la scoperta del sesso, dell’identità, dell’intimità. L’idea di fondo, non sempre dichiarata ma onnipresente, è che il bambino da solo non sia in grado di affrontare la vita, non possa sbagliare, non debba mai cadere, e, soprattutto, non sia mai pronto. E quindi: “aspetta, ci penso io”.
In questo contesto, il messaggio implicito che si trasmette costantemente è devastante: “Tu, da solo, non ce la fai”. Non è un caso se così tanti bambini oggi esitano, si bloccano, si autosvalutano. La loro autostima non può formarsi, semplicemente perché non vengono mai messi nelle condizioni di scoprire quanto valgono davvero. L’autostima non è un dono, né il frutto di lodi continue e premi immeritati. È il risultato diretto dell’esperienza autonoma, della possibilità di agire, sbagliare, riprovare. Un bambino che non può sbagliare, non può nemmeno crescere.
E la società non aiuta. Da un lato, i bambini sono caricati di aspettative smisurate: devono essere bravi a scuola, sportivi, equilibrati, socievoli, emotivamente consapevoli, tecnologici ma non dipendenti, competitivi ma non aggressivi. Dall’altro, non viene concesso loro nemmeno un angolo di autonomia reale: non possono uscire da soli, attraversare una strada, prendere un autobus, gestire un imprevisto. Devono essere perfetti ma sempre sotto controllo. Non è solo un paradosso: è un cortocircuito. Anche la gradualità della crescita, che dovrebbe essere un processo naturale, oggi è saltata. I genitori barattano i progressi spontanei e quotidiani con la sicurezza totale, ma la sicurezza, quella assoluta e priva di rischio, è spesso solo paura travestita. Paura che il figlio si faccia male, che fallisca, che soffra, che perda tempo. E così, nella rincorsa al controllo, si sottrae ai bambini la cosa più importante: il diritto di essere protagonisti della propria vita. Di testare il mondo, di sporcarsi le mani, di sbagliare i compiti, di prendersi un brutto voto, di litigare con un amico, di farsi male al ginocchio cadendo.
E non finisce qui. C’è una forma di controllo ancora più subdola, spesso scambiata per amore e confidenza: la sottrazione della privacy. I genitori di oggi vogliono sapere tutto: cosa pensa il figlio, con chi parla, cosa prova, cosa sogna, cosa teme. E lo chiamano “dialogo”, “intimità”, “vicinanza”. Ma spesso è solo un modo per invadere, per togliere spazio mentale. La privacy non è un lusso: è un bisogno ed è nel silenzio, nel segreto, nella solitudine protetta che un bambino impara a riflettere, a valutare, a diventare se stesso. Senza privacy, non c’è libertà interiore, e senza libertà interiore, l’autostima diventa una posa, non una realtà. Quando un genitore pretende di sapere tutto, di capire tutto, di essere sempre presente, si trasforma, magari senza volerlo, in una figura dominante, che vampirizza l’identità nascente del figlio. L’affetto diventa un pretesto, e il legame perde la sua autenticità. Si crea una dipendenza in cui il bambino esiste solo attraverso lo sguardo dell’adulto. Il messaggio è: “Sei importante solo perché io mi occupo di te”. È un amore condizionato, che si presenta come cura ma spesso è solo gestione del potere affettivo.
E allora ci si sorprende se i bambini dubitano di sé, se si sentono fragili, incapaci, inadeguati? L’autostima non cresce in chi viene trattato come un’appendice, e non fiorisce in chi non ha margini d’errore. Allora chiediamoci come fa a svilupparsi l’autostima in chi vive costantemente sotto osservazione, in una gabbia dorata fatta di buone intenzioni e ansie non risolte degli adulti?
I genitori, oggi più che mai, dovrebbero avere il coraggio di farsi da parte, di non occupare tutta la scena, di rinunciare a sapere tutto, a controllare tutto, a correggere tutto. Dovrebbero imparare a reggere le loro stesse paure, senza riversarle sui figli. Lasciare che i bambini siano bambini, nel senso più vero: esploratori, imprecisi, ingenui, coraggiosi, imperfetti. Dovrebbero imparare a dire: “Vai, sbaglia, scopri, torna indietro, riparti”.