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Come le parole trasformano l’identità e la percezione delle persone transgender

Come le parole trasformano l’identità e la percezione delle persone transgender

di  Yuleisy Cruz Lezcano

Nel cuore delle battaglie per i diritti civili, il linguaggio non è mai stato solo una questione di parole. È sempre stato questione di identità, riconoscimento e dignità.
Tra i cambiamenti più significativi degli ultimi decenni vi è la transizione – culturale e linguistica – da termini come transessuale a transgender, un’evoluzione che racconta le lotte, le rivendicazioni e la crescente consapevolezza della comunità LGBTQIA+. Il termine transessuale fu coniato nel 1949 dallo psichiatra tedesco David Oliver Cauldwell e successivamente reso popolare dal sessuologo Harry Benjamin. Il concetto si radicava in un paradigma medico: descriveva persone che desideravano cambiare il proprio sesso biologico, spesso attraverso interventi chirurgici o terapie ormonali. La parola si focalizzava esclusivamente sul corpo, relegando l'identità a una questione patologica o clinica., ma con il tempo, quella definizione ha cominciato a stare stretta.

Negli anni ’80 e ’90, con l’emergere dei movimenti queer e l’attivismo trans più radicale, la comunità ha cominciato a rifiutare una terminologia che medicalizzava e stigmatizzava l’identità. Così è emerso transgender, termine ombrello che si concentra sull’identità di genere piuttosto che sul corpo biologico, includendo chi non si riconosce nel genere assegnato alla nascita, indipendentemente dal percorso medico intrapreso. Cambiare le parole significa cambiare anche il modo in cui una società percepisce sé stessa. Definire qualcuno transessuale implica che la sessualità sia l’aspetto centrale dell’identità, ma per molte persone trans, la questione non è il sesso, bensì il genere: come ci si percepisce, come si vuole essere riconosciuti, come si desidera vivere nel mondo.

Il linguaggio è specchio della cultura dominante, ma può anche esserne il motore di cambiamento. L’adozione di transgender ha permesso di uscire da una visione ristretta e patologizzante, aprendo a una narrazione in cui l'autodeterminazione è al centro. In altre parole, non è la medicina a “confermare” l’identità di una persona: è la persona stessa che la definisce.

Il passaggio da transessuale a transgender non è stato né immediato né indolore. I media, le istituzioni e persino alcuni ambiti della medicina hanno continuato per anni a utilizzare il vecchio termine, spesso senza consapevolezza delle sue implicazioni. In certi contesti ancora oggi, transessuale è usato impropriamente, o con sfumature offensive. Eppure, grazie alla pressione della comunità LGBTQIA+ e al lavoro instancabile di attivista e accademico, la narrativa è cambiata. Oggi, transgender è riconosciuto dalla maggior parte delle istituzioni internazionali, dall’OMS alle Nazioni Unite, come termine rispettoso, inclusivo e centrato sull’identità, non sulla patologia.

Nel mondo contemporaneo, dove le identità si fanno sempre più fluide e intersezionali, il potere di nominarsi è fondamentale. Le parole sono strumenti di visibilità, di appartenenza, di resistenza. Per molte persone trans, scegliere il proprio nome, i propri pronomi, il proprio genere è un atto rivoluzionario e intimo al tempo stesso. È affermare: "esisto, e ho il diritto di raccontarmi con le mie parole, non con quelle che altri hanno scelto per me." In questo senso, il linguaggio non è solo descrizione, ma anche costruzione. Cambiare una parola può sembrare un dettaglio, ma per chi ha lottato per essere riconosciuto/a, è un passo verso una società più giusta, più umana, più vera.

 

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