di di Yuleisy Cruz Lezcano
Ogni giorno che passa, il disagio cresce. È palpabile negli occhi stanchi delle persone sui mezzi pubblici, nei silenzi imbarazzati delle cene di famiglia, nei post urlati sui social e nei sorrisi forzati di chi finge che vada tutto bene. La società in cui viviamo è ammalata, e i suoi sintomi sono ovunque: nella rabbia cieca, nella solitudine diffusa, nel conformismo che annienta, nella manipolazione sottile e costante, nello sfruttamento sistemico che ormai non indigna più nessuno.
Ci troviamo immersi in una crisi esistenziale collettiva. Non si tratta solo di precarietà economica, ma di una precarietà molto più profonda: quella dell’identità, del senso, della speranza. Il futuro non è più una promessa, ma un’ipotesi che fa paura. Viviamo come se fossimo sospesi nel nulla, mentre ci raccontiamo storie consolatorie per sopravvivere. Ma sotto la superficie, sappiamo tutti che qualcosa si è rotto in modo irreversibile.
Il malessere si manifesta prima di tutto nei rapporti umani. Le relazioni affettive, familiari e sociali sono attraversate da tensioni latenti o esplosive. La rabbia è diventata il linguaggio più comune, spesso travestita da sarcasmo, indifferenza o cinismo. Non sappiamo più ascoltare, comunicare, sostenere. La fatica di vivere si riversa sugli altri, e ci troviamo invischiati in dinamiche di colpa e di fuga. Fingiamo equilibrio per non pesare su chi ci circonda, ma finiamo per essere complici di una grande recita collettiva: tutti sorridono, nessuno sta bene,
eppure, la rabbia non è un errore, è una risposta, un segnale, un campanello d’allarme che ci dice che così non si può andare avanti. Ma non sappiamo più incanalarla, dove indirizzarla. E allora, come accade troppo spesso, si trasforma in odio per l’altro: il diverso, il migrante, il povero, il giovane, l’anziano. Chiunque possa diventare il capro espiatorio del nostro malessere.
Una delle forme più subdole di questa malattia sociale è il conformismo moderno, il cosiddetto "conformismo 2.0". Non si tratta più del conformismo classico, quello del dopoguerra, degli anni ’60 o ’80, in cui ci si allineava a ideologie o visioni del mondo precise, magari anche opposte tra loro. Oggi, il conformismo è un'adesione cieca a un nulla, è il tentativo disperato di somigliare a qualcosa che non esiste più, o meglio, che non abbiamo più la forza di immaginare. Il conformista 2.0 è colui che cambia pelle ogni giorno, che prende posizione solo in base al trend del momento, che rifugge ogni profondità, ogni complessità, ogni rischio di autenticità. È quello che si esprime per hashtag, che costruisce la propria identità in base a contenuti effimeri e opinioni in affitto. E questo perché avere un’opinione personale, oggi, significa assumersi una responsabilità – e la responsabilità fa paura.
In questa società iperconnessa e ipersollecitata, la personalità è diventata un pericolo, perché esporsi, distinguersi, pensare, significa esporsi al giudizio, al fallimento, all'esclusione. Meglio rifugiarsi nel "tutti", nel "così fan tutti", in una massa informe che si muove in branco ma senza meta. Ma da dove nasce tutto questo malessere? Chi lo genera, chi lo alimenta?
Non si tratta solo di una degenerazione spontanea. Il sistema in cui viviamo è progettato per mantenerci in uno stato di ansia permanente, di competizione continua, di insicurezza esistenziale. È un meccanismo che sfrutta l’individuo non solo come lavoratore, ma anche come consumatore, elettore, utente, follower. E lo fa colonizzando la mente, svuotando i sogni, trasformando ogni aspirazione in un prodotto.
Il potere non ha più bisogno di imporre, oggi basta influenzare. La manipolazione è psicologica, emotiva, estetica. Ci viene detto cosa desiderare, cosa temere, cosa odiare. E noi, disorientati e soli, obbediamo. Senza accorgerci che ci stiamo autoannullando.
Il lavoro, che un tempo era fonte di identità e dignità, è oggi una parodia oscena: stage non pagati, contratti a tempo determinatissimo, stipendi ridicoli, ricatti continui. Eppure continuiamo a rincorrere questo fantasma, perché ci è stato insegnato che senza lavoro non siamo nessuno. E così ci adattiamo, ci vendiamo, ci consumiamo, e chi si ferma è perduto, o peggio: invisibile. Forse la vera tragedia contemporanea non è tanto il dolore – che è parte dell’esistenza – ma la mancanza di senso. Il fatto che questo dolore non porti da nessuna parte, che non ci sia più un orizzonte comune, un’utopia, una lotta collettiva. Tutti soli nelle proprie miserie, ognuno attaccato alla propria maschera – quella del sorriso forzato o del muso duro – in una società che ci ha separati e isolati.
Non c’è più un “noi” capace di agire, di ribellarsi, di costruire alternative. Solo un alveare impazzito, che vola verso la catastrofe mentre si racconta che è tutto sotto controllo. Forse, come dice qualcuno, l’unica rivoluzione possibile è affondare con eleganza, non per codardia, ma per non gravare su chi ci è vicino, per non trascinarli nel nostro stesso vuoto. Una fine lenta e dignitosa, che ci consenta almeno l’illusione di scegliere il modo in cui sparire. Ma forse, invece, la vera rivoluzione è ancora possibile. Magari non sarà collettiva, non sarà eroica, non sarà di massa, ma potrà essere individuale, autentica, silenziosa. Smettere di fingere, di conformarsi, di partecipare al gioco truccato. Ritrovare, nel caos, una voce personale, un senso anche piccolo, ma proprio un gesto gratuito, una solidarietà non richiesta, una parola vera in mezzo al rumore. Non per salvare il mondo – che forse non vuole essere salvato – ma per salvarsi l’anima.
Rino Gaetano cantava che il cielo è sempre più blu. E oggi più che mai quel blu è un paradosso, perché sotto quel cielo viviamo (e moriamo) ogni giorno, disillusi e infelici, aspettando che qualcosa cambi. Ma forse il cambiamento non verrà dall’alto, forse deve nascere dentro, nella scelta di non essere complici, nella fatica di restare umani. E allora, anche nel peggior dei mondi possibili, una piccola ribellione può ancora nascere: non somigliare a niente, se non a sé stessi.
"Nessuna società si è mai evoluta al di fuori degli scrittori." Le parole di Oriana Fallaci oggi suonano come un’eco dimenticata tra le rovine di un pensiero pigro, omologato, sfibrato. In un’epoca in cui tutto si consuma alla velocità di uno scroll, in cui l’opinione si comprime in 280 caratteri e l’indignazione dura meno di un temporale d’agosto, scrivere è ancora un atto di sovversione. Scrivere, davvero scrivere — non produrre contenuti — è opporsi, scavare, togliere la pelle alle cose.
Ed è proprio per questo che oggi, più che mai, gli scrittori fanno paura. Perché quando un sistema vacilla, quando la menzogna si fa legge e l’anestesia diventa forma di governo, le parole libere sono schegge impazzite.
Gli scrittori, quelli veri, non servono il potere. Lo osservano, lo interrogano, lo sbugiardano, non accarezzano la coda del potere, la mordono. Non compongono nenie per borghesi spaesati. Non scrivono romanzi “da salotto” mentre fuori brucia tutto. Gli scrittori veri sono quegli esseri scomodi, stonati, che restano in piedi quando tutti si siedono, che alzano la voce mentre il coro intona la melodia della convenienza. Bisogna ricordarselo, oggi più che mai, davanti alla letteratura da premio, quella da vetrina, da influencer, da festival patinato, che preferisce l’ambiguità del compromesso alla chiarezza della verità.
Una letteratura che non mette in discussione, che non smuove coscienze, che non apre crepe, non è letteratura: è pubblicità. È propaganda con una bella copertina, narrazione addomesticata, pigrizia intellettuale elevata a stile.
Chi scrive ha una responsabilità enorme,
perché nel tempo del rumore, le parole vere sono bombe a orologeria. Chi scrive ha l’obbligo morale di ricordare alla gente che ci sono alternative, che non tutto è già deciso, che non si è sbagliati a essere tristi, confusi, arrabbiati, fuori posto. Lo scrittore non è mai uno spettatore, è sempre un testimone, un dissidente, un ostinato cercatore di verità. E allora sì: scrivere è il mestiere più utile che ci sia, perché quando tutto tace, restano le parole. Quando la realtà mente, sono le parole a svelare il trucco. Quando il futuro appare morto, sono le parole a ricordarci che possiamo ancora inventarlo. Non è solo romanticismo, non è solo idealismo: è necessità. Chi scrive non può mai dimenticare da che parte stare: quella della ferita, non della benda. E soprattutto, chi legge non può permettersi il lusso di dimenticare cosa sono, o cosa erano, gli scrittori: fari nella nebbia, spilli nei fianchi del potere, semi di disobbedienza.