La tragedia di Marcinelle e le stragi silenziose del nostro presente
di Yuleisy Cruz Lezcano
Nel piazzale della miniera del Bois du Cazier, a Marcinelle, i 262 rintocchi della campana Maria Mater Orphanorum hanno segnato, l’8 agosto 2025, il 69° anniversario di una delle più grandi tragedie del lavoro della storia italiana. In quel giorno del 1956, a 1.035 metri sotto terra, un incendio innescato da un corto circuito soffocò in poche ore 262 minatori, 136 dei quali italiani. Tra loro c’era anche chi non vide mai recuperato il proprio corpo, come Attilio Dassogno, e insieme a loro intere province da Nord a Sud a lutto. Una strage che segnò un prima e un dopo nella memoria collettiva, tanto da spingere nel 2001 alla proclamazione della Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo. Oggi, tuttavia, quella tragedia appare meno lontana di quanto si voglia credere.
In Italia, nel 2025, si continua a morire sul lavoro con una frequenza disarmante. Nei primi sette mesi dell’anno sono già oltre 530 le morti registrate sui luoghi di lavoro, escluse quelle in itinere o per malore. Una cifra che non può più essere considerata come una sequenza di sfortunate fatalità. Ogni vita spezzata è il risultato diretto di carenze strutturali: poca formazione, mancanza di dispositivi di protezione, ritmi disumani, controlli assenti o inefficaci. E mentre si commemorano i caduti del passato, i nomi dei lavoratori del presente, come Marco C. (rider morto a Napoli), Mario G. (caduto da un ponteggio a Caltanissetta), o Gabriele C. (22 anni, deceduto in una logistica a Firenze), vengono appena accennati nelle cronache locali, presto dimenticati, senza mai trovare posto in un archivio ufficiale. La media delle vittime si concentra tra lavoratori con più di 45 anni, spesso professionisti esperti, con decenni di attività alle spalle. Un dato che interpella profondamente. L’esperienza, che dovrebbe proteggere, diventa invece un’illusione. Le cause? Le mansioni ad alto rischio restano concentrate nelle mani di lavoratori maturi per via della scarsità di personale giovane formato, ma anche di una cultura del rischio che tende a sottovalutare l’usura fisica, la stanchezza, o l’automatismo dei gesti quotidiani. Ma l'età non è un’armatura. La tragedia colpisce anche i più giovani, come dimostrano i casi di morti avvenute durante stage, tirocini e percorsi di formazione. Episodi di cronaca come quelli di studenti travolti da un mezzo durante l’alternanza scuola-lavoro, o ragazzi schiacciati da un muletto mentre imparavano il mestiere, dimostrano quanto il confine tra formazione e sfruttamento sia labile. E diventa ancora più invisibile quando il lavoro è sommerso o in nero, come nel caso di Alì M., deceduto in un cantiere abusivo a Palermo. Una dinamica che priva i lavoratori delle minime tutele, rendendoli invisibili anche nella morte.
Se l’Inail segnala, nei suoi dati ufficiali aggiornati a giugno, una leggera diminuzione degli infortuni mortali rispetto al 2024, la riduzione è però attribuibile soprattutto alle morti in itinere o per malori. I decessi avvenuti direttamente nei luoghi di lavoro restano su numeri stabili, elevati e inaccettabili. E le istituzioni, spesso, reagiscono con un silenzio che sa di complicità. A oggi, in Italia, non esiste un sistema nazionale che raccolga e renda pubblici i nomi e le circostanze dei caduti sul lavoro. L’unica realtà che tenta di colmare questa lacuna è l’Osservatorio Indipendente di Bologna, fondato da Carlo Soricelli, che elabora bollettini mensili basandosi su fonti giornalistiche locali. Proprio il suo monitoraggio ha rilevato che maggio 2025 è stato uno dei mesi più tragici dell’anno, con circa 70 morti: la maggiore concentrazione si è avuta nei settori dell’edilizia, dell’agricoltura, della logistica e della manifattura. Le tre regioni con il più alto numero di casi sono risultate essere la Lombardia, la Sicilia e la Puglia, evidenziando sia il peso economico dei comparti produttivi locali, sia la fragilità dei sistemi di prevenzione.
Un’analisi dei dati raccolti mostra un’incidenza altissima nelle regioni a maggiore attività industriale o agricola: in Lombardia si registra un’incidenza di 2,8 morti ogni 100.000 lavoratori, in Sicilia 3,1, e in Puglia 3,4. La prevalenza rispecchia la medesima distribuzione, sottolineando come i fattori strutturali, come il tessuto economico e la qualità dei controlli, determinino la geografia del rischio. Nei settori maggiormente coinvolti, le condizioni di lavoro sono spesso gravose, con strumenti obsoleti, mansioni esposte a pericoli diretti e una generale tendenza al risparmio sui costi di sicurezza. L’agricoltura continua a essere uno dei comparti più letali, complici mezzi datati, scarso uso di protezioni e frequente impiego irregolare di manodopera. L’edilizia resta il settore con il maggior numero di cadute dall’alto, spesso dovute a ponteggi non a norma o all’assenza di linee vita. La logistica, soprattutto nei grandi hub del nord-est, è segnata da ritmi serrati, turni massacranti e carichi di lavoro che spingono spesso al limite dell’errore fatale.
La storia, evidentemente, non insegna. Nonostante tragedie come quella di Marcinelle, il mondo del lavoro italiano continua a sacrificare vite umane nel nome della produzione. Gli esempi si susseguono anno dopo anno: dalla strage della ThyssenKrupp a Torino nel 2007, dove sette operai morirono bruciati vivi, fino al recente caso del giovane operaio morto folgorato in un’azienda elettrica nel ferrarese. Ogni volta si promette una svolta, ogni volta si torna rapidamente all’oblio. È questo il vero fallimento collettivo: la capacità di ricordare, ma non di cambiare. Eppure, sarebbe bastato poco per salvare molte vite: una linea vita ancorata correttamente, una formazione più accurata, un controllo effettuato nel momento giusto.
In Belgio, a Marcinelle, ogni anno si ricordano quei 262 lavoratori che non fecero più ritorno. In Italia, nello stesso tempo, seppelliamo nel silenzio decine di vite ogni mese, nel frastuono dei cantieri e dei trattori. Finché non ci sarà un cambio radicale culturale, politico e istituzionale, ogni giornata della memoria resterà un rituale vuoto, ogni rintocco una condanna che continua. E ogni vita perduta, come quella di Gabriele, 22 anni, in un magazzino logistico, o di Michele, 72, schiacciato da un cancello agricolo, sarà solo un'altra statistica da ignorare. Eppure, anche davanti a questa lunga scia di sangue, il dibattito pubblico rimane flebile, intermittente, quasi anestetizzato. La cronaca locale racconta ogni giorno storie di vite spezzate, ma raramente riesce a farle emergere nel panorama nazionale. Eppure ogni nome è una famiglia distrutta, un vuoto improvviso e incolmabile. Il dolore resta relegato al perimetro delle comunità colpite, come se fosse una questione privata, non un problema strutturale. Ma la verità è che questa strage silenziosa è il sintomo di un sistema malato che tratta la sicurezza come un costo e non come un diritto. Un sistema che investe poco in prevenzione e molto nella gestione delle emergenze, che si affida alla buona volontà di pochi ispettori, troppo pochi per coprire migliaia di aziende, cantieri, magazzini, officine. Il lavoro irregolare, sommerso o in nero, rappresenta poi una delle crepe più profonde del sistema. Molti dei morti non compaiono nei dati ufficiali proprio perché non risultavano assunti, non erano assicurati, o erano inseriti in forme contrattuali ambigue che li lasciavano fuori da ogni tutela. Giovani stagisti mandati in reparti produttivi senza formazione, studenti in alternanza scuola-lavoro assegnati a mansioni pericolose, operai stranieri impiegati nei campi o nei cantieri senza protezioni e senza diritti. Le vittime non sono solo numeri, ma il riflesso di una piramide rovesciata, dove i più deboli stanno alla base e pagano il prezzo più alto.
Nel frattempo, l’assenza di una banca dati pubblica e unificata impedisce di costruire una memoria collettiva vera. Non sapere chi siano i morti, come sono morti, dove e perché, significa non imparare nulla. Perché la storia possa insegnare, deve essere conosciuta. E qui la memoria si frammenta tra bollettini parziali, silenzi istituzionali e l’impegno eroico di singoli osservatori. Non può esserci cambiamento senza trasparenza. E non ci sarà giustizia finché continueremo a commemorare i caduti di Marcinelle con cerimonie solenni, mentre ogni giorno altri cadono nella stessa indifferenza. Solo quando il lavoro tornerà a essere ciò che promette – una via per costruire il futuro, non una roulette russa quotidiana – allora, forse, potremo dire che quelle morti non sono state vane. Ma fino ad allora, il suono delle campane continuerà a coprire quello delle sirene.