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Quando il silenzio diventa politica: l’Italia che sceglie di non educare

Quando il silenzio diventa politica: l’Italia che sceglie di non educare

di  Yuli Cruz Lezcano

 

Il 23 maggio 2025 il governo ha presentato il ddl Valditara, intitolato “Disposizioni in materia di consenso informato in ambito scolastico”, come un principio di “corresponsabilità educativa” tra scuola e famiglia. Il testo introduce in modo generalizzato l’obbligo, per le istituzioni scolastiche, di ottenere un consenso scritto preventivo da parte dei genitori (o degli studenti maggiorenni) per ogni attività scolastica — curricolare o extracurricolare — che riguardi temi legati alla sessualità. Nel concreto, il ddl stabilisce il divieto di qualsiasi iniziativa di “educazione sessuo-affettiva” nelle scuole dell’infanzia e primarie. Per le scuole medie (secondarie di primo grado) e per le superiori, ogni lezione o progetto su questi argomenti potrà essere svolto solo a fronte di un consenso esplicito da parte dei genitori

Secondo il testo approvato in prima lettura dalla Camera il 3 dicembre 2025, l’educazione sessuale nelle secondarie non viene abolita in assoluto, ma viene vincolata a una procedura formale: i genitori devono essere informati preventivamente — con materiali da visionare — e dare approvazione perché l’attività si svolga. 

Nelle motivazioni ufficiali del governo, l’intervento è descritto come un modo per garantire trasparenza, rispetto delle famiglie e prevenire “indottrinamenti ideologici”, relegando le tematiche sessuali allo studio biologico della riproduzione e della pubertà, come previsto dalle “Indicazioni nazionali”.

Sotto la veste di “libertà educativa” e rispetto per l’autonomia delle famiglie, tuttavia, il ddl introduce vincoli — burocratici e organizzativi — che molte opposizioni, pedagogisti, ONG e operatori educativi interpretano come una vera e propria limitazione della funzione formativa della scuola.

In termini istituzionali, la norma rappresenta una revisione strutturale della collaborazione scuola-famiglia: l’intervento educativo su temi complessi come sessualità, corpo, identità, affettività viene spostato dalle istituzioni scolastiche — che hanno una funzione pubblica e sono soggette a standard scientifici e pedagogici — all’arbitrio del consenso familiare, rendendo le attività opzionali e soggette a discrezionalità.

In questi termini, il ddl Valditara non è solo una modifica tecnica alle regole scolastiche: è un cambio di paradigma. E questo cambiamento appare gravido di conseguenze non solo per la possibilità di insegnare educazione sessuale nelle scuole, ma per l’intero ruolo della scuola come spazio di formazione, prevenzione, inclusione, educazione alle relazioni e all’affettività.

 Il dibattito

Il dibattito che si apre dopo l’approvazione in prima lettura del ddl Valditara non ruota soltanto attorno a un dettaglio amministrativo, ma investe il ruolo stesso della scuola come luogo di tutela pubblica. Le ricerche internazionali più autorevoli – dall’UNESCO al WHO Regional Office for Europe – convergono nell’affermare che l’educazione sessuale basata su evidenze scientifiche riduce le gravidanze precoci, diminuisce la diffusione di infezioni sessualmente trasmissibili, contrasta stereotipi e violenza di genere, migliora le relazioni tra pari e favorisce un clima scolastico meno conflittuale.Dove questi programmi vengono resi opzionali o ostacolati, gli studiosi registrano invece un aumento delle disuguaglianze: solo chi ha genitori informati e coinvolti finisce per accedere a percorsi educativi che dovrebbero, per loro natura, essere universali.

Il ddl, con l’introduzione del consenso informato obbligatorio, rischia di cristallizzare proprio questo divario. La scuola viene caricata di procedure che distolgono energie dalla didattica; gli insegnanti devono anticipare contenuti, aspettare autorizzazioni, preparare attività alternative per chi non partecipa. Le famiglie, dal canto loro, sono poste davanti a temi complessi senza alcun accompagnamento formativo:non esiste un sistema pubblico che le aiuti a comprendere cosa significhi educazione affettiva, come si parli ai figli di crescita, di consensi, di limiti, di identità. In questo vuoto si insinuano paura, sospetto e una solitudine educativa che gli psicologi descrivono come uno dei fattori più critici nel rapporto tra genitori e adolescenti.

Il paradosso è che mentre in Italia si produce un irrigidimento normativo, le indagini sociali condotte negli ultimi due anni mostrano un’ampia domanda dal basso: nove giovani su dieci chiedono programmi strutturati di educazione sessuale e affettiva. E non sono soli: l’80% dei genitori si dice favorevole, a conferma del fatto che il problema non è la domanda sociale, ma la volontà politica di ascoltarla.

Quando una società si polarizza, il potere tende a delegittimare competenze, a individuare nemici interni, a rappresentare la complessità come una minaccia. Da qui l’idea che proteggere i giovani significhi isolarli da tutto ciò che può disturbare un’idea rigida e semplificata di famiglia, di identità, di vita sociale.

Il risultato è una deriva culturale in cui il principio “prevenire è meglio che curare” viene sostituito da un “non parlarne è meglio che affrontarlo”.Il ddl Valditara diventa così un caso emblematico di come le politiche possano allontanarsi dai bisogni reali della società per rispondere a logiche simboliche, identitarie, elettorali.

 

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