Abbiamo bisogno di talento vero: basta con la cultura del “quasi”
di Yuleisy Cruz Lezcano
C’è un’emergenza silenziosa che nessun telegiornale racconta, eppure ci riguarda tutti da vicino: stiamo perdendo il senso del talento, ma non il talento da “talent show”, non quello patinato degli influencer, dei reality, dei microfoni con l’autotune, dei balletti su TikTok, si parla del talento vero. Quello che nasce dalla dedizione, che si tempra nel sacrificio, che affonda le radici in anni di studio, fallimenti, rigore. Quello che regge sulle spalle uno spettacolo teatrale di due ore e mezza e non si nasconde dietro un algoritmo.
Questione di eccellenza
Lo abbiamo sempre saputo che l’arte, e la vita, è questione di eccellenza, ma ce ne stiamo dimenticando, o peggio: ce ne stiamo allontanando per paura, perché il talento vero mette in crisi, alza l’asticella, fa sentire piccoli, inadatti, impreparati. Così, invece di celebrarlo, lo abbiamo sostituito con la mediocrità rassicurante, quella che non fa male a nessuno ma non lascia nulla, quella che non fa domande e non costringe a risposte. E oggi siamo immersi in una cultura che premia l’apparire, la visibilità, la viralità, non la sostanza.
Guardare un ragazzo diciottenne, sconosciuto ai più, reggere da solo un palco in una produzione colossale come ha fatto Mattia Cremonese, ti restituisce la misura esatta di quello che abbiamo perso. Su quel volto, sulla sua voce, sul suo corpo ci sono anni di preparazione severa, selezione dura, passione autentica. Nessun “posto riservato”, nessuna scorciatoia. E guardandolo si capisce una cosa semplice e potente: quando i giovani sognano in grande e si dedicano a realizzare i propri sogni attraverso il merito, una società è salva ed è, soprattutto, benedetta. Lo stesso vale per i teatri pieni, perché dove c’è teatro, musica dal vivo, danza, pittura, scultura, c’è spirito critico, c’è emozione, c’è tensione verso l’alto. Dove c’è arte, la barbarie resta fuori. Lì, il talento ha ancora un senso. E dovrebbe tornare a essere qualcosa da ammirare e inseguire, non da nascondere per non “dare fastidio” a chi si accontenta.
Ma siamo diventati una cultura che premia il contrario, che ha creato un sistema dove il mediocre si sente legittimato e il brillante deve farsi piccolo. Dove la preparazione viene derisa, e il successo facile è visto come un diritto, non come il frutto di anni di impegno. Viviamo nell’epoca dell’influencer, non dell’influenza culturale. Dove conta di più “essere seguiti” che saper dove si sta andando. Ai ragazzi oggi non si propone più l’ideale dell’eccellenza, ma quello dell’esposizione. Non importa che tu sappia far qualcosa, ma che tu lo faccia vedere e, se è possibile, che tu lo venda bene. Il talento, quello vero, è troppo silenzioso per le logiche dell’algoritmo.
Forse per questo guardando le navi-scuola attraccate nei porti, con quei giovani in divisa bianca pronti a salpare, si avverte un fremito antico. Un rispetto. Perché lì c’è ancora qualcosa che somiglia al rito, alla disciplina, alla sfida con sé stessi. Qualcosa che ha a che fare con la dignità. Noi delle generazioni degli anni ’70 e ’80 siamo cresciuti con il mito della laurea, ma bisogna dirlo con chiarezza, ci vorrebbe un contatto con la realtà, un senso di utilità, un orizzonte. Mentre noi, con tutta la nostra cultura “alta”, ci siamo incagliati, e intanto la nave salpa senza di noi.
Atto di accusa verso la sterilità
Non è una rinuncia alla cultura, ma un atto di accusa verso la sterilità della cultura odierna: quella che si è fatta autoreferenziale, spenta, inutile. Siamo cresciuti con l’idea che leggere, studiare, laurearsi fosse la via maestra. Oggi è diventata una corsia chiusa. Di laureati ce ne sono troppi, di opportunità pochissime, di meritocrazia nemmeno l’ombra. E allora lo capisci che non basta “sapere”, se poi tutto ciò che sai è zavorra che ti impedisce di partire.
In questo panorama avvelenato, persino le parole sono diventate sospette, come “spontaneo”. Quanti adulti ripetono con tenerezza: “I bambini sono spontanei”., ma niente di più Falso. I bambini sono, fin da subito, immersi in un sistema di codici, modelli, aspettative e replicano ciò che assorbono. Tifano la squadra del papà, vogliono i giocattoli che vedono nei video, imitano i comportamenti appresi dall’ambiente. Non c’è nulla di puro, neutro o innato in quelle scelte. C’è solo cultura, cultura veicolata, imposta, masticata fin dall’infanzia. E allora non illudiamoci che crescano “spontanei”, liberi, creativi. Crescono condizionati da noi. E se noi abbiamo smesso di credere nel talento, loro smetteranno anche solo di cercarlo, perché il talento vero non è “spontaneo”, è coltivato. Va individuato, nutrito, accompagnato, anche con severità, ma, purtroppo, noi non abbiamo più il coraggio di chiedere impegno. Abbiamo paura di risultare esigenti. Così, li lasciamo lì, galleggianti in una comfort zone di mediocrità da cui sarà difficile salpare.
Abbiamo costruito una società dove tutto è “soft”, fluido, permissivo. Dove le regole si piegano, i giudizi si evitano, le frustrazioni si anestetizzano. Ma il talento, quello vero, non nasce da lì. Nasce nel rigore, nella sfida, nella fatica e, credeteci, produce gioia vera. Quella che si prova solo quando si supera un limite, quando si vince la paura, quando si raggiunge un risultato autentico. E questa gioia ai ragazzi farebbe benissimo. La bellezza del talento altrui è una delle cose più sane che esistano: educa al rispetto, alla misura, all’ispirazione.
Allora forse dobbiamo solo ricominciare da qui, smetterla di temere chi sa fare le cose meglio, di abbassare l’asticella per includere tutti e tornare a dire che no, non va bene lo stesso. Dobbiamo comprendere che il talento è raro, prezioso, e va celebrato, che la mediocrità va rimessa al suo posto, senza alibi, che i nostri figli hanno bisogno di esempi grandi, non comodi. Hanno bisogno di sogni ambiziosi, non accessibili a tutti, perché è solo guardando in alto che si impara a volare. E il talento, in fondo, è questo: il coraggio di spiccare il volo, quando tutti intorno si accontentano di restare a terra.