di Yuleisy Cruz Lezcano
C’è una forma di violenza che non si vede subito. È quella che si annida nel linguaggio quotidiano, nei gesti di controllo mascherati da amore, nelle battute che sminuiscono, nei silenzi che gelano. È una violenza che nasce molto prima del colpo: si forma nei modelli educativi, nelle aspettative, nelle paure.Comprenderla significa riconoscere che il problema non è solo nell’atto, ma nella cultura che lo rende possibile.
Le scienze sociali lo dicono da tempo: la violenza di genere è un fenomeno sistemico. Secondo Thomas Luckmann, la realtà sociale è costruita dalle relazioni e dal linguaggio. È dentro quelle parole, quei discorsi e quelle rappresentazioni che si forma l’idea di cosa sia un uomo, una donna, un rapporto. Quando i modelli maschili si fondano su ansia di prestazione, possesso e controllo, diventano trappole identitarie che alimentano frustrazione e paura del fallimento. Il sociologo Raewyn Connell parlava di “maschilità egemonica”, un modello che impone la forza, la razionalità, il successo come prove di valore virile.Ma dietro quel modello si nasconde spesso una fragilità emotiva negata, che esplode in rabbia e violenza quando l’uomo non riesce a corrispondere all’immagine di sé che la cultura gli chiede di incarnare.
La teoria dei sistemi complessi di Fritjof Capra ci aiuta a vedere tutto questo come parte di una rete più ampia.Non esistono cause isolate: la violenza emerge dall’interazione tra emozioni, contesti, linguaggi e strutture sociali. È un fenomeno che si autoalimenta, come un ecosistema inquinato in cui ogni squilibrio si propaga. Cambiare le leggi o punire i colpevoli non basta: bisogna rigenerare l’ecosistema relazionale e simbolico in cui la violenza trova terreno fertile.
Ed è qui che entrano in gioco la poesia, l’arte e la cultura. Perché se la violenza nasce anche da una povertà di linguaggio emotivo, l’arte diventa un mezzo per ritrovarlo. Attraverso la parola poetica, l’immagine, la musica,possiamo imparare a riconoscere e nominare ciò che spesso rimane sommerso: la paura, la vergogna, il senso di inadeguatezza. Nei laboratori di educazione emozionale, la creatività si trasforma in strumento di consapevolezza: le persone vengono invitate a raccontarsi, a riscrivere la propria storia, a ricomporre fratture interiori.Una delle pratiche più efficaci è il Caviardage, una tecnica di scrittura poetica che parte dal “cancellare per rivelare”. Si prende una pagina stampata e, eliminando parole, se ne fanno emergere altre, creando versi inattesi. È un gesto simbolico potente: togliere per ritrovare senso, lasciare che la parola nascosta emerga. In questo modo, si può dare forma alla rabbia, ma senza distruggerla; si può nominare il dolore, ma trasformandolo in linguaggio e non in azione aggressiva. È una pedagogia dell’ascolto, dove il silenzio tra le parole diventa spazio di rinascita.
Anche l’arte visiva offre strumenti preziosi. I laboratori espressivi — pittura, teatro, fotografia — permettono di mettere a distanza le emozioni, di osservare la rabbia come un oggetto esterno e non come un’identità.
Quando l’uomo che ha imparato a non piangere si scopre capace di dipingere la propria rabbia, sta già compiendo un atto rivoluzionario: trasforma l’energia distruttiva in gesto creativo. È un modo per riappropriarsi della propria umanità, per spezzare il legame tra potere e violenza e sostituirlo con empatia e ascolto.
Questa forma di educazione non è“alternativa” alla prevenzione o alla giustizia: è il terreno su cui esse possono attecchire. Perché la violenza di genere non si elimina solo punendo, ma rieducando al sentire, costruendo una cultura della relazione che valorizzi la vulnerabilità come forza. In molte scuole, carceri e centri antiviolenza italiani si stanno già sperimentando percorsi di questo tipo: laboratori di scrittura poetica, gruppi di parola maschili, atelier di teatro sociale. In questi spazi si impara a nominare la rabbia senza esserne schiavi, a riconoscere i propri automatismi, a “disarmarsi” attraverso la parola.
Le poetesse del Novecento e della contemporaneità hanno aperto varchi in questa direzione. La statunitense Adrienne Rich, in una delle sue raccolte più intense, The Dream of a Common Language (1978), scrive: “L’amore non è chiaro né puro. / Non ci sono eroi nel cuore. / Solo voci che cercano di parlarsi.”
Più di recente, la giamaicana Lorna Goodison scrive in Heartease (1988): “Non chiamare la mia rabbia tempesta, / è solo il modo in cui il mare parla alla luna.”
Qui la rabbia non è condannata ma ascoltata, riconosciuta come linguaggio naturale del dolore. È proprio questo che i laboratori educativi sulle emozioni cercano di insegnare: a dialogare con la rabbia, non a reprimerla o a lasciarla esplodere.
In fondo, la poesia e la sociologia, per quanto lontane sembrino, si incontrano proprio qui: nel tentativo di ricomporre ciò che si è spezzato, di dare senso al caos delle relazioni umane. Capra direbbe che si tratta di ristabilire l’equilibrio del sistema; Luckmann direbbe che si tratta di ricostruire i significati condivisi.Forse, per guarire la cultura della violenza, dobbiamo prima imparare a piangere insieme. E poi, lentamente, a costruire — come con i Lego di un nuovo mondo — relazioni fondate sulla cura, sull’ascolto, sul rispetto delle differenze. Ogni parola restituita alla sua verità, è un piccolo atto di pace, come scrive la poetessa cilena Gabriela Mistral, premio Nobel nel 1945: “Se ti ferisce, canta. Non per dimenticare, ma per cambiare il dolore in respiro.”La poesia, l’arte e la cultura non sono orpelli. Sono antidoti lenti ma radicali contro la cultura del possesso e della sopraffazione,restituiscono umanità all’emozione, spazio alla fragilità, voce a chi è stato silenziato. E forse è proprio da qui che si può cominciare a disarmare la violenza: dal coraggio di trasformare la rabbia in parola, e la parola in relazione.
