Lavoro femminile sommerso e intersezionalità: le disuguaglianze che non fanno notizia
di Yuli Cruz Lezcano
Nel dibattito sul lavoro femminile, si parla sempre più spesso di gender pay gap, precarietà, esclusione, e talvolta persino di inclusione. Ma c'è un concetto che ancora fatica ad affermarsi nel discorso pubblico, nonostante la sua potenza analitica e trasformativa: l’intersezionalità. Comprendere davvero questo termine non è solo una questione teorica, ma uno strumento essenziale per interpretare, e cambiare, le dinamiche profonde che relegano molte donne ai margini del mercato del lavoro, dentro e fuori dal sommerso. Il concetto di intersezionalità nasce a fine anni ’80 grazie alla giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw. Inizialmente elaborato per descrivere come le donne nere negli Stati Uniti vivessero una doppia forma di discriminazione , di natura razzista e sessista, il concetto si è poi ampliato, includendo anche altre forme di marginalizzazione: classe sociale, etnia, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità, età, cittadinanza. L’intersezionalità, dunque, non è semplicemente l’aggiunta di più forme di discriminazione, ma un modo di comprendere come queste si combinano e si rafforzano a vicenda, producendo effetti unici.
Nel caso del lavoro femminile sommerso, questa prospettiva è cruciale. Le donne che lavorano in nero, senza contratto, spesso in ambiti informali come il lavoro domestico, la cura delle persone anziane, la ristorazione o l’agricoltura, sono tutt’altro che un gruppo omogeneo. I dati raccolti negli ultimi anni mostrano che le donne migranti rappresentano la fetta più ampia del lavoro femminile informale in Italia, in particolare nei servizi alla persona. Secondo un rapporto dell’INAPP del 2022, oltre il 70% del lavoro domestico in Italia è svolto da donne straniere, e di queste circa un terzo è impiegata in modo irregolare. Questo significa assenza di tutele, assenza di diritti, e spesso condizioni di vita ai limiti della dignità. Ma la sola variabile “origine straniera” non basta. Le barriere linguistiche, la mancanza di riconoscimento dei titoli di studio ottenuti nei Paesi d’origine, la mancanza di reti sociali e familiari, i costi dell'accesso ai servizi (come quelli per la regolarizzazione del permesso di soggiorno), tutto questo si somma e moltiplica. In chiave intersezionale, queste donne non sono semplicemente “più povere” o “più sfruttate”: sono posizionate in modo tale da non poter nemmeno accedere agli strumenti che servirebbero per uscire dalla marginalità. Il razzismo strutturale, sommato al sessismo sistemico, produce esclusione non solo economica, ma anche sociale e istituzionale.
Anche per le donne italiane, però, il discorso non è semplice. Il lavoro sommerso colpisce soprattutto chi è priva di un’istruzione elevata, chi vive in aree periferiche o rurali, chi ha figli piccoli e non può permettersi servizi di cura. Se a ciò si aggiunge una disabilità, un’età avanzata o un orientamento sessuale non conforme, il rischio di esclusione cresce esponenzialmente. Un esempio emblematico è quello delle donne trans, che in molti casi non riescono nemmeno a entrare nel mercato del lavoro regolare a causa della discriminazione aperta o indiretta. Anche quando qualificate, molte di loro si vedono costrette a ricorrere al lavoro informale o ad attività totalmente escluse dal sistema legale.
L’intersezionalità non è solo una lente utile a descrivere ciò che non funziona: è anche una chiave politica. Uno dei limiti più evidenti delle politiche sul lavoro femminile, e delle politiche di parità di genere in generale, è che spesso si rivolgono a un modello implicito di “donna media”: italiana, cisgender, senza disabilità, con un livello di istruzione medio-alto. Tutto ciò che si discosta da questo modello viene trattato come “caso particolare”, eccezione da gestire. Ma in realtà, le donne che subiscono discriminazioni multiple non sono un'eccezione: sono la norma in molte fasce della società. Per esempio, parlare di gender pay gap senza considerare l’intersezionalità significa sottovalutare la portata reale delle disuguaglianze. Come abbiamo visto, il divario retributivo grezzo tra uomini e donne in Italia si aggira attorno al 5-6% secondo dati Eurostat. Ma quando si guarda al gender pay gap “complessivo”, che tiene conto di variabili come il part-time involontario, i settori segregati, i ruoli apicali, le pause per maternità e le condizioni contrattuali, il divario si amplia sensibilmente. Per le donne migranti, con disabilità o in condizioni di marginalità sociale, il gender pay gap non è solo una percentuale: è una condizione di vita.
Secondo uno studio pubblicato nel 2024 sulla rivista International Journal of Manpower, in Italia le donne straniere guadagnano in media il 30% in meno rispetto agli uomini italiani, e circa il 18% in meno rispetto alle donne italiane, a parità di mansioni. Le donne con disabilità presentano tassi di occupazione inferiori di oltre 20 punti percentuali rispetto ai colleghi uomini con disabilità. Eppure, queste realtà faticano a entrare nell'agenda politica.
Il rischio, come avvertono molte studiose femministe, è che si continui a parlare di “donne” come di un blocco unico, omogeneo, e che le misure messe in campo non riescano a incidere davvero su chi ha più bisogno di cambiamento. Per essere efficaci, le politiche del lavoro devono essere disegnate con una consapevolezza intersezionale: devono riconoscere che l’inclusione non può essere raggiunta con una soluzione unica per tutti.
Ciò significa, ad esempio, pensare a servizi di conciliazione vita-lavoro accessibili a chi ha figli e non ha reti familiari; percorsi formativi realmente gratuiti e linguistici per le donne straniere; meccanismi di certificazione delle competenze non formali per chi lavora in settori sommersi; regolarizzazioni efficaci e non punitive per chi ha lavorato anni in nero. Ma significa anche educazione: a partire dalle scuole, fino alla formazione aziendale e alla comunicazione pubblica. Solo riconoscendo la complessità delle esperienze femminili, sarà possibile costruire un mondo del lavoro più giusto, più aperto e davvero inclusivo.