Dallo stupro sistemico al silenzio europeo: storie di donne in fuga
Di Yuleisy Cruz Lezcano
Il Messico è un Paese che porta nel proprio corpo sociale le ferite profonde di una lunga storia di violenza strutturale. È terra di passaggio, di fuga, di scomparsa. Luogo in cui la geografia stessa si intreccia con le rotte del dolore: le rotte della tratta, dell’immigrazione clandestina, dello stupro sistematico, della morte anonima. Nelle sue strade e nei suoi deserti si consuma quotidianamente una tragedia che ha come protagoniste donne e bambini, corpi vulnerabili in transito, spesso mai più ritrovati. È un Paese che detiene un numero altissimo di femminicidi, con decine di migliaia di morti senza nome, donne rapite, stuprate, uccise, dissolte nel nulla, mentre il sistema giuridico resta spesso cieco o complice. Allo stesso tempo, il Messico è teatro di una delle lotte femministe più forti, persistenti e creative dell’America Latina. Un contrasto apparente, ma solo in superficie, perché proprio nei luoghi in cui la violenza è più pervasiva, la resistenza diventa urgenza vitale, necessità di esistere contro la cancellazione.
Nel 1975, Città del Messico ospitò la prima Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulla condizione femminile. Da quell’evento storico, cui parteciparono rappresentanti da 133 Paesi, nacque la Dichiarazione e il Programma d’Azione di Città del Messico, che segnò l’inizio del Decennio delle Nazioni Unite per le donne. In un Paese segnato dalla disuguaglianza di genere, quella conferenza fu un atto di riconoscimento e di legittimazione delle istanze femministe a livello globale. Ma le promesse di allora si sono scontrate con decenni di impunità e indifferenza. La contraccezione forzata, le sterilizzazioni di massa in alcune comunità indigene, le politiche sanitarie coloniali, definiscono una pagina oscura della storia messicana che ancora oggi trova eco nelle pratiche repressive e nei sistemi di controllo sul corpo femminile. Nelle aree più povere e marginali, molte donne non hanno accesso ai servizi sanitari di base, mentre altre, migranti, affrontano la traversata verso nord sotto il costante rischio di violenza sessuale, portando con sé anticoncezionali di emergenza come unica protezione dal destino.
La rotta migratoria che attraversa il Messico somiglia in modo inquietante a quella che porta molte donne africane, soprattutto nigeriane, attraverso la Libia, fino alle coste europee. Anche lì, le tappe del viaggio coincidono con zone grigie di illegalità e crudeltà, in cui i corpi femminili diventano merce di scambio, strumenti per estorcere, sopravvivere o punire. In Libia, i centri di detenzione diventano lager in cui le migranti subiscono torture, stupri di gruppo, gravidanze imposte, estorsioni. I racconti delle sopravvissute sono speculari a quelli delle donne centroamericane che passano per il Messico, sequestrate da narcos, da bande locali, da trafficanti che operano con la tacita tolleranza delle autorità. Le donne migranti vivono un doppio esilio: da una parte fuggono da contesti di povertà, conflitti o emarginazione, dall’altra vengono disumanizzate nel viaggio, costrette a un transito che le marchia psicologicamente e fisicamente.
In Italia, l’arrivo di queste donne, sopravvissute a viaggi infernali, non trova sempre un’accoglienza umana e strutturata. Spesso, una volta sbarcate, vengono inserite in percorsi di accoglienza fragili, inadeguati, a volte infiltrati da reti di sfruttamento. Alcune finiscono nella prostituzione forzata, altre vengono espulse o lasciate in stato di abbandono. L’Italia, come il Messico, è Paese di passaggio e di destinazione, crocevia di migrazioni e di politiche ambigue, dove le vite delle donne migranti vengono strumentalizzate nei discorsi politici ma raramente ascoltate nei fatti. Le politiche migratorie italiane, negli ultimi anni, si sono irrigidite, con un crescente numero di rimpatri, detenzioni amministrative e restrizioni all’accoglienza. Le donne, in particolare, subiscono l’assenza di un approccio intersezionale, che tenga conto della violenza di genere come componente sistemica dei percorsi migratori. Non si tratta solo di numeri o di flussi: si tratta di vite segnate da traumi multipli, di corpi che portano i segni della violenza attraversata e della sopravvivenza conquistata.
Eppure, anche in Italia, come in Messico, i movimenti femministi non tacciono. Dalla Rete Non Una di Meno alle attiviste che operano nei centri di accoglienza, passando per le organizzazioni che lavorano con donne vittime di tratta, c’è una rete di resistenza che tenta di dare voce, protezione e dignità a chi arriva senza niente, nemmeno un nome registrato. Queste realtà si scontrano ogni giorno con la burocrazia, con il razzismo sistemico, con l’indifferenza istituzionale, ma continuano a operare nella convinzione che nessuna sia invisibile, che ogni corpo abbia diritto a esistere, a essere visto, ascoltato, tutelato.
Il parallelo tra Messico e Libia, tra Città del Messico e Lampedusa, non è solo geografico. È un racconto comune di territori di confine, di territori dove le leggi del mercato e della sopraffazione valgono più dei diritti umani. Ma è anche un racconto di insurrezioni, di voci che non si lasciano zittire, di corpi che, nonostante tutto, continuano a camminare, a parlare, a lottare. La storia delle donne nei territori di frontiera è una storia di dolore, ma anche di straordinaria resistenza. Le immagini delle madri che cercano le figlie scomparse in Messico, delle migranti che si aggrappano ai barconi, delle attiviste che marciano con i volti coperti da fazzoletti verdi o viola, sono immagini di una battaglia che continua, spesso nell’indifferenza generale.