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La deriva delle challenge pericolose e le fratture dell’identità nella società dell’immagine

La deriva delle challenge pericolose e le fratture dell’identità nella società dell’immagine

 

Di Yuleisy Cruz Lezcano

 

Negli ultimi mesi ha fatto scalpore tra educatori e genitori la cosiddetta “cicatrice francese”, una challenge virale nata su TikTok in cui adolescenti e preadolescenti si marchiano volontariamente la guancia con oggetti roventi, che possono essere per esempio accendini, cucchiai, piastre, con l’obiettivo di lasciare un segno permanente. Inizialmente mascherata da “rito goliardico” o sfida tra amici, questa pratica si è diffusa come un simbolo di appartenenza a una sottocultura digitale in cui il corpo diventa strumento di visibilità e linguaggio alternativo al silenzio esistenziale.

La ferita

La “ferita francese” non è un caso isolato. Rientra in una lunga scia di comportamenti estremi trasmessi in diretta sui social, tra cui ricordiamo il “blackout challenge” (auto-soffocamento), la “blue whale” (una serie di sfide autolesive culminanti nel suicidio), e sfide di pericolosità crescente legate a sostanze, atti vandalici, aggressioni e umiliazioni pubbliche. Non si tratta di devianze marginali, ma di fenomeni sistemici, capaci di intercettare bisogni profondi: visibilità, appartenenza, senso di esistenza. Queste pratiche si diffondono in spazi digitali dove gli adulti, che siano essi genitori, insegnanti, educatori, arrivano sempre troppo tardi. Quando un padre o una madre scopre che il figlio si è ustionato la faccia per una challenge, è spesso già accaduto tutto: la sfida è stata vista, imitata, condivisa, commentata. E l’adulto viene messo sotto accusa: "Dov'eri mentre accadeva tutto questo?"

La realtà è che la distanza generazionale si è trasformata in un abisso digitale. I giovanissimi parlano linguaggi nuovi, fatti di emoji, codici visivi, trend, meme, e vivono in un ecosistema mediatico che spesso sfugge completamente alla comprensione del mondo adulto. Non si tratta solo di mancata sorveglianza, ma di mancanza di comprensione. È difficile intervenire su ciò che non si riesce a decifrare. In questo vuoto di significato, i social offrono rifugio, ma anche una pericolosa illusione: quella di poter controllare la propria immagine e identità attraverso gesti estremi. Apparire, anche feriti, è meglio che sparire. Infatti, nella società odierna, la costruzione del sé è passata dal fare all’apparire. Viviamo dentro un’economia dell’attenzione dove chi non si mostra, non esiste. Questo schema, interiorizzato precocemente dai giovanissimi, porta a una competizione spietata per il riconoscimento: più mi espongo, più valgo. Ma in un mondo saturo di contenuti, l’unico modo per emergere è estremizzare l’esperienza.

Il dolore spettacolarizzato

Il dolore, in questo contesto, viene spettacolarizzato. La ferita non è più un segno da nascondere, ma un simbolo di identità, un grido d’aiuto estetizzato. Gli atti autolesivi diventano performativi: non per punirsi, ma per farsi guardare. Il volto bruciato dalla cicatrice francese è la nuova maschera di una generazione che non riesce a raccontare il proprio malessere, ma è disposta a inciderlo sulla pelle. Questa deriva visiva è sintomo di un disordine emotivo profondo. In una società che medicalizza ogni disagio, ma raramente lo ascolta, i ragazzi faticano a trovare spazi per esprimere ansia, dolore, insicurezza. La solitudine è travestita da iperconnessione, ma dentro cresce un senso di inadeguatezza strutturale. A questo si aggiunge l'effetto anestetico dei social: più contenuti estremi vediamo, meno ci turbano. È la normalizzazione del dolore. Poi, la cultura dell’apparenza aggrava la situazione: non solo bisogna essere belli, brillanti, sicuri, ma bisogna essere tutto questo sempre davanti a qualcuno. È una forma di esibizionismo forzato che genera alienazione e perdita del contatto con il sé reale.

Chi partecipa a queste sfide viene spesso etichettato: “disturbato”, “inadeguato”, “mal cresciuto”. Ma “l’etichettamento” sociale è un processo che cristallizza l’identità fragile, rafforzando l’esclusione e alimentando ulteriori gesti estremi. I giovani non hanno bisogno di diagnosi lampo, ma di ascolto, contenimento e riconoscimento autentico. Il fallimento non è solo familiare, ma educativo e istituzionale. La scuola, pur centrale, è lasciata sola, e spesso priva degli strumenti per affrontare questi nuovi disagi. Le piattaforme digitali, dal canto loro, hanno enormi responsabilità ma ancora troppo pochi obblighi etici. Cosa fare, allora? La risposta non può essere univoca, ma deve partire da alcuni punti chiave: Per esempio per citarne alcuni: sicuramente si impone la necessità di una educazione digitale obbligatoria: dalla primaria in poi, serve insegnare cosa sono gli algoritmi, come funziona l’attenzione online, quali sono i rischi psicologici dei social; è assolutamente necessaria l’alfabetizzazione emotiva. I ragazzi devono imparare a riconoscere e comunicare le proprie emozioni e questo può avvenire solo se gli adulti offrono modelli autentici e non performativi. I genitori sì è vero che devono essere presenti ma non sono con un ruolo di controllo, ma è fondamentale dialogo. Non è necessario conoscere ogni slang, ma saper chiedere: “Come stai davvero?”. Bisogna poi pretendere dal punto di vista sociale regolamenti più rigidi per le varie piattaforme e una moderazione dei contenuti estremi e maggiore tutela dei minori.

Questi fenomeni sono fenomeni strutturali, sociali, comunitari, pertanto la comunità deve impegnarsi per creare spazi di espressione reale; serve ricostruire luoghi di aggregazione giovanile fuori dalla logica dell’apparenza, dove i ragazzi possano raccontarsi senza essere giudicati o monetizzati. La ferita francese è solo la superficie. Sotto c’è un dolore più profondo, collettivo, culturale, sistemico. Non è un fenomeno da demonizzare o censurare, ma da interpretare. È un grido che chiede attenzione, ascolto, relazione. È un monito che ci riguarda tutti: se una generazione arriva a ferirsi per sentirsi viva, vuol dire che la nostra società ha smesso di ascoltare. A questo punto la sfida non è censurare il gesto, ma curare il vuoto che lo genera. Solo così si potrà passare da una cultura del dolore esibito a una cultura della cura, dell’identità riconosciuta, dell’essere autentico. Dove non serva più farsi male per essere visti, ma basti esserci per essere accolti.

Non si tratta di semplici "bravate" adolescenziali, ma di derive culturali e psicologiche profonde, che mettono a rischio la salute, l’equilibrio e perfino la vita di minori. Eppure, nella maggior parte dei casi, questi comportamenti vengono percepiti come casi isolati, come deviazioni di singoli, come incidenti su cui fare allarme per qualche giorno prima di dimenticare. La verità è molto più inquietante: sono la punta dell’iceberg di una crisi strutturale che riguarda educazione, relazioni, identità e società. 

Si vedono sempre più, anche nei post dei social,  i genitori messi sotto accusa, ma lasciati soli. Infatti, quando la cronaca racconta questi episodi, la reazione pubblica è quasi sempre la stessa: si punta il dito sui genitori. “Dove erano?” “Come hanno potuto non accorgersi?” “Non controllano i figli?” È un meccanismo crudele quanto superficiale. Si dà per scontato che ogni comportamento pericoloso sia frutto di trascuratezza familiare, dimenticando che i figli oggi vivono metà della loro esistenza in una dimensione digitale che sfugge completamente allo sguardo adulto. I genitori non sono assenti per indifferenza, ma spesso impreparati e soli, travolti da un mondo in continuo cambiamento, in cui i codici evolvono più velocemente della loro possibilità di interpretazione. Anche i genitori più presenti si trovano spiazzati davanti a gesti che non riescono a decifrare, e spesso scoprono troppo tardi cosa è successo.

Il problema, quindi, non è solo educativo, ma sistemico: riguarda il modo in cui la nostra società ha smesso di creare ponti tra le generazioni, sostituendo il dialogo con la sorveglianza, l’ascolto con il giudizio. Le sfide virali non sono solo contenuti pericolosi: sono segni di un disagio collettivo. Viviamo in una cultura in cui l’essere non basta più. Per contare, bisogna mostrarsi. Per avere voce, bisogna scioccare. Il problema non sono solo TikTok o gli algoritmi, ma l’idea inculcata sin dall’infanzia che la visibilità equivalga al valore. I ragazzi lo assorbono, lo interiorizzano, e lo traducono in contenuti che parlano con il corpo: corpi che si sfidano, che si mettono in pericolo, che si feriscono per ottenere attenzione.

 

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