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Spiagge libere, diritti negati

Spiagge libere, diritti negati

 

di Yuleisy Cruz Lezcano

 

Nel pieno dell’estate italiana, mentre le coste si riempiono di sdraio, prenotazioni e polemiche, si continua a parlare di spiagge con il metro sbagliato. “Gli stabilimenti sono vuoti!”, “Colpa dei prezzi!”, “Colpa dei salari bassi!” gridano i titoli dei giornali. Ma la vera domanda non è se i lidi siano economicamente sostenibili. È se siano legalmente legittimi. E, soprattutto, se siano moralmente giustificabili in un Paese che dovrebbe tutelare l’accesso ai beni comuni.

La spiaggia è demanio pubblico

La spiaggia è demanio pubblico. Lo dice la Costituzione, lo conferma la legge: è inalienabile, imprescrittibile, inusucapibile. Appartiene a tutti, sempre. L’accesso al mare è un diritto e non dovrebbe dipendere dal portafoglio. Eppure, la realtà è diversa. Gran parte del litorale è oggi recintato, privatizzato di fatto, soggetto a regole arbitrarie decise da soggetti privati che agiscono in assenza di reali controlli. Gli stabilimenti balneari, in teoria, operano in virtù di concessioni temporanee rilasciate dallo Stato. Ma tutte le concessioni sono scadute. Dal 2023, lo ha chiarito anche il Consiglio di Stato: non ci sono più proroghe valide. Eppure, i lidi sono ancora operativi. Di fatto, in assenza di una normativa aggiornata e coerente, sono in attività senza titolo, cioè illegalmente. Lo Stato lo sa, le forze dell’ordine lo sanno, ma nessuno interviene. Perché?

 

Le spiagge sono diventate terreno di scambio politico. La gestione locale, frutto del decentramento amministrativo, ha trasformato interi tratti di costa in feudi, dove regna la logica dello scambio di favori. In molte località, anche le spiagge libere sono scomparse: privatizzate in modo surrettizio durante la pandemia, quando i bastoncini del distanziamento sociale si sono trasformati in paletti per ombrelloni a pagamento. Oggi anche i noleggiatori ambulanti si comportano come gestori: prenotazioni, cacciate di chi non paga, chioschi abusivi. Tutto illegale. Ma tollerato. In questo contesto, la gente di mare , cioè le comunità costiere, i cittadini che vivono i territori, si ritrova espropriata delle proprie spiagge. Deve pagare o litigare per accedere al mare. E molti, ormai, stanno scegliendo la seconda opzione. Lottano, denunciano, presentano esposti. Ma le denunce si insabbiano. La magistratura resta silente. Le istituzioni latitano. Perché? Perché ogni tratto di costa è parte di un sistema consolidato di potere, rendita e complicità. E chi disturba viene ignorato o ostacolato.

Di padre in figlio

C’è anche un problema culturale profondo. In Italia, l’idea che un figlio prenda l’attività del padre senza gara, senza selezione, è ancora largamente accettata. Questo vale anche per le concessioni balneari, trasmesse come eredità private su un bene pubblico. Eppure, è illegale. Le concessioni non possono essere perpetue. Non sono proprietà, ma autorizzazioni temporanee su beni collettivi. L’assenza di gare pubbliche è una ferita aperta alla trasparenza, all’equità e al principio di concorrenza. “Ma con tutti i problemi che abbiamo, perché parlare delle spiagge?” È una domanda frequente. La risposta è semplice: il mare è un simbolo potente. Per noi italiani, circondati dal mare su ogni fronte, le spiagge sono parte dell’identità collettiva. Difendere l’accesso libero al mare significa difendere l’idea stessa di bene comune, comunità, Stato di diritto. Significa rifiutare la logica che trasforma tutto in merce, anche l’orizzonte.

Attenzione, però, a non cadere nella semplificazione opposta. Non tutti gli operatori balneari sono speculatori. Molti gestori garantiscono lavoro stagionale, manutenzione, servizi, sicurezza. In tante località, senza di loro le spiagge sarebbero abbandonate, sporche e pericolose. I bagnini, i bagni puliti, il pronto soccorso: tutto questo ha un costo. E lo Stato, con le sue spiagge “libere”, spesso non copre nemmeno una parte di questi servizi. I problemi nascono quando mancano regole, trasparenza e canoni equi. Chi demonizza i balneari dimentica che i canoni vengono pagati, anche se sono ridicolmente bassi: colpa dello Stato, non dei gestori. Il problema non è chi lavora onestamente, ma chi si approfitta di un sistema senza controlli. E chi impedisce ai Comuni di gestire direttamente, con modalità pubbliche e cooperative, ciò che appartiene a tutti. Sicuramente alla luce di tutto questo, serve una riforma seria e coraggiosa. Che preveda: gare pubbliche e trasparenti; canoni aggiornati ai valori reali; quote obbligatorie di spiagge libere (almeno il 50%); gestione pubblica dei servizi essenziali nelle spiagge libere (bagnini, pulizia, vigilanza), con fondi comunali finanziati dai proventi delle concessioni; sanzioni e controlli severi contro l’abusivismo e la privatizzazione selvaggia. E serve, soprattutto, una cittadinanza consapevole e responsabile. Che sappia rivendicare i propri diritti, ma anche rispettare gli spazi comuni. Che si prenda cura del mare, che eviti degrado e maleducazione. Perché la libertà senza rispetto produce solo caos, e giustifica chi vorrebbe tornare alla spiaggia a pagamento “per decenza”. Il dibattito sulle spiagge è un termometro del nostro rapporto con i beni pubblici. Dietro ogni ombrellone si nasconde una domanda scomoda: che cosa siamo disposti a fare per difendere ciò che è di tutti? Non servono crociate contro chi lavora. Ma nemmeno silenzi su chi lucra senza titolo. Serve una riforma coraggiosa, servono controlli veri, serve informazione indipendente. Non bastano i titoli da social. Il mare è di tutti. Ma il diritto al mare va organizzato, gestito e protetto. Altrimenti, resta solo una nostalgia balneare. E una sconfitta collettiva.

La questione dell’accesso al mare, che inizialmente può sembrare un tema estivo e secondario, si sta rivelando ogni giorno di più una fotografia nitida di come in Italia vengano gestiti – o mal gestiti – i beni comuni. Dopo aver analizzato i paradossi, le opacità e le contraddizioni che circondano il sistema delle concessioni balneari, è necessario domandarsi: e adesso? Come si esce da questo vicolo cieco senza compromettere il diritto collettivo al mare né mettere in ginocchio un intero comparto economico? Il primo errore da evitare è credere che la soluzione stia nel semplicismo delle crociate ideologiche. Da un lato chi grida “tutto libero” senza affrontare il problema dei servizi, della sicurezza, della manutenzione; dall’altro chi difende il sistema attuale appellandosi al lavoro, agli investimenti privati e alla presunta impossibilità di cambiare. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Le spiagge devono tornare ad essere accessibili, davvero pubbliche, ma non possono essere abbandonate a se stesse. Servono regole nuove, eque, trasparenti. Regole che non lascino spazio alla speculazione, ma nemmeno all’anarchia.

In Italia, il concetto di “libero” viene spesso confuso con “gratuito” o peggio, con “senza responsabilità”. È anche per questo che molte spiagge libere si degradano, vengono invase da rifiuti o da noleggiatori improvvisati che impongono tariffe illegittime. La libertà non può essere sinonimo di disordine. Una spiaggia libera deve comunque essere pulita, sicura, accessibile a tutti, soprattutto alle persone più fragili. E per garantire tutto questo serve un sistema di gestione che sia pubblico, partecipato e ben organizzato. L’idea che solo il privato possa offrire servizi di qualità è un pregiudizio che ha fatto danni enormi. In tanti Comuni italiani mancano le risorse per intervenire direttamente, è vero, ma questo non significa che si debba cedere la gestione del mare a tempo indeterminato a chiunque si trovi da decenni in quella posizione. Le concessioni balneari non possono essere trattate come eredità familiari. Il diritto a stare su una spiaggia non è un bene privato da passare di padre in figlio, è una responsabilità pubblica che deve essere regolata con criteri trasparenti e imparziali. Chi vuole lavorare in quel settore lo faccia attraverso bandi, con offerte eque e canoni proporzionati ai guadagni effettivi. Nessuno nega che esistano gestori seri, corretti, capaci, che investono e offrono servizi. Ma chi lavora bene non dovrebbe temere la concorrenza sana. Il problema è che finora è mancato un sistema equo che metta tutti nelle stesse condizioni di partenza. C'è poi un'altra distorsione: la direttiva Bolkestein è stata trasformata da alcuni in un nemico astratto, come se fosse un'imposizione europea che distrugge le tradizioni locali. Ma non è così. La Bolkestein chiede solo una cosa: che le concessioni pubbliche siano affidate tramite gara, in modo trasparente. È un principio di concorrenza e giustizia che dovrebbe valere in ogni democrazia. Il vero scandalo non è la direttiva, ma il fatto che l’Italia non sia riuscita in 15 anni a recepirla correttamente, lasciando spazio a proroghe infinite, ricorsi, sentenze contraddittorie e confusione giuridica. In questo vuoto normativo si è infilato di tutto: abusi, clientele, zone grigie dove chi ha più forza – economica o politica – si è imposto sugli altri.

Nel frattempo, lo Stato incassa cifre irrisorie da un sistema che produce miliardi di euro l’anno. In alcune località i canoni pagati per l’utilizzo di chilometri di costa sono ridicoli, lontani anni luce dai valori di mercato. È evidente che c’è uno squilibrio che penalizza la collettività. Eppure, chi parla di aumentare i canoni, di bandi regolari, di controllo pubblico, viene spesso accusato di voler “distruggere il turismo”. In realtà, è esattamente il contrario: senza regole e giustizia non si costruisce niente di duraturo.

 

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