L'omosessualità nel cinema italiano: il viaggio da Pasolini agli anni '90 tra tabù, censura e rivelazione
L'omosessualità sullo schermo è sempre stata, in Italia, un barometro della sua società: un indicatore sensibile dei tabù, delle paure e, infine, della progressiva apertura culturale. Ripercorrere la rappresentazione LGBT+ nel cinema italiano dal Secondo Dopoguerra agli Anni '90 significa attraversare una storia di silenzi, censure e coraggiose, talvolta controverse, rivelazioni.
Il Dopoguerra e l'Ombra della Censura
Nel Dopoguerra, l'Italia si confronta con le macerie morali e politiche, ma l'eredità legislativa del regime fascista, in particolare il Codice Rocco, continua a plasmare l'atteggiamento pubblico verso la sessualità non eteronormativa. La censura cinematografica è severissima: la figura omosessuale è spesso vietata o, se presente, ridotta a stereotipi denigratori.
I primi accenni, come ricorda la studiosa Antonella Di Luoffo, autrice di approfondimenti sul tema, sono timidi e ambigui. Il cinema popolare, quando tocca l'argomento, lo fa attraverso figure marginali: l'omosessuale è spesso un personaggio "equivoco", effeminato per la comicità (e la tolleranza superficiale), o perverso e negativo, retaggio di un'omofobia profondamente radicata. È un'epoca in cui l'omosessualità resta "sconsigliabile per il nostro pubblico".
Pasolini: La Rottura e il Peccato Ineliminabile
Il vero punto di svolta, il terremoto che squarcia il velo dell'ipocrisia, è incarnato da Pier Paolo Pasolini. Poeta, scrittore e regista, Pasolini fa della sua omosessualità non un fatto privato, ma un elemento centrale e provocatorio della sua arte e del suo personaggio pubblico.
Nelle sue opere cinematografiche (e letterarie), Pasolini utilizza la sessualità, e in particolare l'omosessualità, come metafora potente e critica del potere, della repressione borghese e della corruzione della società. A differenza di molti suoi contemporanei, Pasolini non edulcora né nasconde. Nelle sue pellicole, la sessualità è spesso legata alla vita delle borgate romane, lontana dai salotti borghesi, restituendo una realtà cruda e vissuta.
Film come Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) utilizzano la violenza e la degradazione sessuale (che includono rapporti omosessuali e sadomasochismo) per condannare il potere assoluto e la mercificazione dell'essere umano. Il sesso diventa una metafora tagliente della repressione e della tirannia.
La sua "diversità" esibita, la sua insubordinazione intellettuale e le sue opinioni critiche sul potere lo resero un bersaglio facile per i media e l'opinione pubblica conservatrice. Il suo omicidio irrisolto del 1975, e la successiva narrazione mediatica, dimostrarono quanto l'omosessualità fosse ancora trattata come una "colpa" o un elemento per cui la vittima "se l'era cercata".
Pasolini, pur non avendo legami diretti con i nascenti movimenti gay degli anni '70, è stato un apripista fondamentale: ha costretto l'Italia a confrontarsi con una realtà negata, rendendo l'omosessualità un tema impossibile da ignorare nel dibattito culturale.
Dagli anni '70 agli anni '90
Dopo l'impatto di Pasolini e l'effervescenza dei movimenti sociali degli Anni '70, il cinema italiano inizia un lento ma significativo cambiamento. Negli Anni '80 e nei primi Anni '90, la rappresentazione è spesso legata al dramma, in particolare all'emergenza AIDS. La figura omosessuale acquista profondità emotiva, pur restando spesso associata al dolore, alla marginalità o alla malattia, ma si allontana gradualmente dallo stereotipo farsesco.
È solo negli Anni '90 che il cinema inizia a ritrarre l'omosessuale come vero e proprio protagonista, un individuo complesso con cui lo spettatore è chiamato a empatizzare, non più solo a deridere o a temere. Pellicole di fine secolo abbandonano i ruoli secondari e marginali per esplorare storie di amore, famiglia, e auto-accettazione, dando voce a una comunità che aveva lottato per decenni per la propria visibilità.
