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05 Agosto 2025

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La misura della sensibilità

La misura della sensibilità

Riflessione molto personale su quanto sentito in consiglio comunale e sul dibattito seguente

di Simona Pacini

Una trentina di anni fa ero a New York, dove per alcune settimane ho vissuto a Manhattan frequentando una scuola di inglese. Passeggiavo per le strade della città e mi sentivo cosmopolita come non mai.

Una mattina in classe arrivò una nuova insegnante, Fiona. Fece l’appello chiamando i nomi sulla lista. Il mio, quello della mia amica brasiliana, del ragazzo catalano, della ragazza spagnola e delle due cilene. Poi c’erano gli asiatici, perlopiù coreani, e l’appello rallentò. Lei pronunciava ogni nome ma non proseguiva finché non riusciva a dirlo nel modo giusto. Non ricordo quanto durò questa cosa, ma pensai che la stesse facendo inutilmente lunga. Che li dicesse come le venivano, quei nomi. A casa mia, a scuola, in piazza, li avremmo pronunciati così e col contorno di una risata.

In realtà Fiona, quella mattina, mi dette una lezione che non avrei dimenticato mai più, facendomi uscire dalle sabbie mobili della piccola realtà (e degli anni di fine secolo) in cui avevo vissuto fino ad allora.

Per fortuna la mia vita è stata costellata da tante Fione che hanno suscitato in me, di volta in volta, una consapevolezza nuova su tanti aspetti della vita.

Da piccola ero la paladina dei deboli e dei perseguitati. Piangevo vedendo certi film e leggendo certi libri. Non riuscivo a capacitarmi per tutto quello che gli ebrei e i nativi americani avevano subìto.

Avevo sicuramente una sensibilità spiccata, ma ideologica. Non c’era un solo ebreo né un nativo americano nella mia cerchia di conoscenze. Ero con loro e dalla loro parte, ma che ne sapevo che cosa significava veramente vivere da ebrei e da nativi americani?

In realtà sapevo che cosa significava vivere da bambina con i capelli rossi e sentirsi dire quando tutti andavano a giocare, tu no perché sei sporca, solo perché le mie braccia erano coperte di lentiggini.

Poi però, alle elementari, prendevo in giro una compagna sfortunata alla quale avevo affibbiato un nomignolo terribile. E sua madre mi aspettava all’uscita per prendermi a borsate.

Per quanto riguarda l’omosessualità, posso dire come molti, “di avere sempre avuto amici gay”. Però non sempre sono stata in grado di capire subito la potenza negativa di certe parole.

L’altro giorno, in consiglio comunale, dove si parlava di omofobia e comunicazione gentile, c’è stato un momento molto delicato. Enrico a un certo punto ha detto “che noi abbiamo una sensibilità diversa” e dall’altra parte hanno cominciato a protestare. Ho pensato che in realtà non sia riuscito a portare a termine il suo discorso. Nella mia mente, la frase successiva sarebbe stata “perché viviamo vicini a Riccardo”. Ma invece è stata intesa come una dichiarazione di superiorità morale.

Francesco però l’ha raccontato di come la sua sensibilità nei confronti dell’omosessualità, soprattutto sull’omofobia, sia cambiata da quando conosce Riccardo.

Ma su Enrico è rimasta quell’etichetta e non mi va giù.

Perché nessuno nasce “sensibile” e “politicamente corretto”, ma la sensibilità così come ogni sfaccettatura di quella cosa complessa che è poi il nostro essere, con il nostro carattere, cresce insieme a noi, grazie alle esperienze e a quanto riusciamo a farle diventare parte della nostra vita.

Poi c’è anche chi, pur costruendosi una bella facciata di sensibilità, non sviluppa empatia, fermandosi a un livello puramente ideologico.

O c’è chi ha avuto la fortuna di nascere già sensibilissimo che più sensibile non si può, ma non si accorge che un suo stretto congiunto sparge melma a destra e a manca sui social.

Insomma. Non mi pare proprio una questione semplice, da liquidare con un’etichetta e via.

Carta vetrata è una rubrica curata da Simona Pacini

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